“Prof, perché va a Messa, se insegna scienze?”. Io rispondo con la storia di Enrico Medi
14 Novembre 2024
Prima accadeva più raramente, poiché insegnavo lontano da casa. Da quando, invece, insegno nel mio paese, c’è sempre, ogni anno, il momento in cui qualche nuovo alunno mi chiede: “Prof., lei insegna matematica e scienze, perché va a Messa?”. Chi lo chiede è, frequentemente, un ragazzo figlio di famiglia con retroterra culturale elevato. I genitori, di solito, laureati. Non è un dettaglio di poco conto.
Si dice che tra scienza e fede non corra buon sangue, non ci sia un buon rapporto, che abbiano modi diversi di vedere il mondo, che siano antitetiche, che si escludano e tanto altro. È risaputo. Ma è anche non corretto. Tra gli stereotipi che girano intorno alla cattedra è uno dei più duri da smontare. Vogliamo dire che nasca proprio dalle cose che si dicono dalla cattedra?
Il presunto contrasto tra scienza e fede
Il fatto che a pensarla così siano figli di laureati contribuisce a corroborare il dubbio. Che sia proprio il percorso scolastico italiano a rafforzare questa dicotomia? Non è del tutto vero. Il ragazzino intelligente e a suo modo profondo mi fa un favore quando, entrando io dopo l’ora di religione in aula, mi chiede se sia più vero il racconto della creazione del mondo riportata in Genesi o la teoria del Big Beng sull’origine dell’universo.
C’è un modo di raccontare le cose che invece di unire separa. E al ragazzo questo non piace. Penso che non piaccia a nessuno. Ne approfitto, ne parlo, affronto la questione. Esplicito i due piani differenti dai quali viene affrontata la questione. Provo a dire che sono complementari, che non si escludono reciprocamente, che sono entrambi necessari. Il problema è, penso mentre scrivo, l’idea di uomo che abbiamo. Soprattutto in Occidente. Corpo o anima? Perché non corpo e anima?
Forse il Romanticismo prima ed il Positivismo poi, con i propri eccessi, hanno diviso l’uomo e, dalla cattedra, ne vedo i frutti nei ragazzini che nemmeno sanno cosa siano stati questi profondi moti culturali.
Se fede e scienza si ignorano perché “non si conoscono”
Penso che tra la fede e la scienza non ci sia un buon rapporto essenzialmente perché non si conoscono, si ignorano. Hanno preferito, fatta eccezione di pochi esempi luminosi, ignorarsi perché forse è troppo faticoso mettersi nei panni (direi nei fondamenti epistemologici) dell’altra.
Giovanni Paolo II così riassumeva questa deriva: “Tra scienza e fede — si è detto — occorre fare una scelta: o si crede nell’una o si abbraccia l’altra. Chi persegue lo sforzo della ricerca scientifica, non ha più bisogno di Dio; viceversa, chi vuol credere in Dio, non può essere uno scienziato serio, perché tra la scienza e la fede c’è contrasto insanabile”.
E così mi arrivano uomini a metà, ragazzini a metà, che ad un certo punto della loro vita (molto presto) si trovano di fronte al falso dilemma di una scelta, che a ben vedere, non andrebbe fatta: quale elimino? Il perché non interessa nemmeno tanto. Sta di fatto che in questo modo non si fa un buon servizio all’uomo di domani. I segnali dell’uomo disumanizzato già si vedono nelle aule e non promettono nulla di buono.
Hanno gettato via la fede dalle aule
La scuola (non “tutta” a dire il vero) da qualche anno ha estromesso la fede dalle proprie aule come fanno i principali enti nazionali e sovranazionali e come fanno i principali motori di ricerca delle diverse piattaforme di Intelligenza Artificiale.
In questo modo, l’idea di un uomo robotico, freddo calcolatore, guidato solo da urgenze pratiche e dall’idea del profitto solo economico penetra nel midollo dei piccoli che osservo e che ne vengono modellati.
“Prof. perché un uomo intelligente come lei fa l’insegnante accontentandosi di guadagnare così poco?” Me lo chiese un paio di anni fa un alunno di terza media. Provai, invano, a spiegargli i motivi profondi della mia scelta, ma lui, come quasi tutti gli altri, non comprese perché essenzialmente mancano loro le categorie per farlo.
Vale, è giusto rimarcarlo, la solita avvertenza: non tutti sono così, ma sono sempre più numerosi. Il problema di fondo è quale tipo di uomo vogliamo proporre.
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Non allontanare il discorso razionale dalla vita della Chiesa
Gli Stati Occidentali, anche se sulla carta dichiarano diversamente, hanno in definitiva scelto: vogliono quello asettico, privo di religione pubblica, privo di moti spirituali, che sia prestante nelle sue mansioni indipendentemente dalle motivazioni che lo muovono. Tuttavia, è vero, d’altra parte, che anche certi ambienti ecclesiali fanno di tutto per allontanare il discorso razionale.
Anche in questi è stato molto comodo rimuovere la razionalità e spacciarla come contraria alla Fede. Eppure, la Gaudium et spes (n. 36), afferma: «La ricerca metodica di ogni disciplina, se procede in maniera veramente scientifica e secondo le norme morali, non sarà mai in reale contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà della fede hanno origine nel medesimo Dio. Anzi, chi si sforza con umiltà e con perseveranza di scandagliare i segreti della realtà, anche senza che lo avverta, viene come condotto dalla mano di Dio, il quale, mantenendo in esistenza tutte le cose, fa che siano quelle che sono». Non mi sembra che questa ovvia considerazione del Concilio Vaticano II sia entrata nel quotidiano della Santa Chiesa. Una prova?
Lo scorso 23 maggio è passato ai giornali di ispirazione cattolica come il giorno in cui è stato annunciato che Carlo Acutis sarà presto santo. Giusto giubilo e motivato: la storia di questo ragazzo e la sua vita hanno molto da indicare ai giovani e meno giovani del nostro tempo, è una vera grazia. Tuttavia, nello stesso incontro di quel giorno, col cardinale Semeraro, papa Francesco ha anche riconosciuto venerabile un certo Enrico Medi che non ha avuto la stessa sorte sui giornali. “Carneade, chi era costui?”, si sarebbe chiesto il manzoniano don Abbondio.
Chi era Enrico Medi?
Stiamo parlando di un fisico laureato sotto la guida di Enrico Fermi, che ha avuto esperienza nel mondo della politica, della divulgazione televisiva delle scienze e un grande attivismo nell’apostolato. Un uomo a tutto tondo. Un degno esempio dell’uomo di fede come delineato dal Vaticano II. Un uomo di scienze dalla grande capacità di sintesi.
Secondo lui, l’attività scientifica manifesta in modo inconfondibile la presenza del Creatore. La sua stessa attività scientifica è vissuta con uno slancio di fede: “L’uomo fa della vera scienza quando dimentica sé stesso e si affida interamente alla luce che dalla natura promana: egli sa di non essere creatore di nulla e che la sua grandezza è solo nella fedeltà con cui accetta il vero”. Credeva in una perfetta sinergia tra scienza e fede per la ricerca dell’unica conoscenza degna di indagine: la verità; anzi, un loro ipotetico contrasto era da lui ritenuto inconcepibile, pur nelle diverse finalità e metodologie. Dirà con lucido convincimento: “Sono vicini i tempi nei quali scienza, filosofia e teologia si incontreranno, portando pienezza di luce nel pensiero dell’uomo. Il sapere e la ricerca avranno della realtà un senso tutto rinnovato, profondo, sostanziale, luminosamente intrinseco di unitaria chiarezza”.
Ecco, questa fusione non è oggi tanto vicina, forse è addirittura più lontana, viste le derive separatiste che osserviamo nel nostro mondo. Eppure, resta la domanda: e se lui avesse avuto ragione?
Credo che Enrico Medi avesse ragione. Credo nell’uomo organico (cioè, completo), che diventa se stesso se esplora tutte le sue sfaccettature. Dalla cattedra lo vedo chiaramente: non è più tempo per fumetti monodimensionali che offrono caricature polarizzate. È ora di riconoscere l’uomo nelle sue molte sfere. È una sfida che va colta da tutti i soggetti che vi lavorano. Nessuno, da solo, compie l’uomo. Occorre il contributo di tutti.
Sia chiaro alla scuola, come alla chiesa, come alla società tutta. Ecco la vera meta che scorgiamo in un orizzonte nemmeno troppo lontano. Non c’è tempo da perdere.
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