CORRISPONDENZA FAMILIARE

Medio Oriente, un conflitto senza fine?

7 Ottobre 2024

Foto: Pixabay

No, non è facile entrare in questo dibattito. È facile dire di essere contro la guerra. E chi non lo sarebbe. A parte i trafficanti di armi, nessuno vede con favore la guerra. Ma quando cerchi di entrare nel conflitto scopri di essere in un labirinto in cui le ragioni si contano e si scontrano. Ciascuno ha le sue certezze e le difende a denti stretti. E ciascuno si chiude dietro il muro delle sue ragioni, così da non vedere più quelle dell’altro. 

Chi legge questo articolo fin dalle prime battute si chiede da che parto sto. La polarizzazione sembra inevitabile. Destra o sinistra, pacifisti o guerrafondai, pro o contro Israele. Non è permesso stare in mezzo. Non è possibile dire che il conflitto nasce da ragioni contrapposte. A mio parere, invece, è questo il punto di partenza per non cadere nella trappola della lettura pregiudiziale, quella che pretende di interpretare i fatti prima ancora di aver visionato con attenzione tutti i molteplici e contradditori aspetti della vicenda. La storia collettiva non cammina per sentieri lineari e non si adatta facilmente alle logiche della rigorosa razionalità. Se è difficile dirimere i conflitti che coinvolgono due o più persone, è quasi impossibile trovare una quadra condivisa nelle contese che coinvolgono popoli e nazioni.

Una premessa necessaria. Il conflitto in Medio Oriente è iniziato 75 anni fa. Lo ha ricordato il cardinale Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme, durante una recente conferenza. Tanti anni, troppi, senza mai trovare una soluzione, un vero accordo. Decenni segnati da conflitti sanguinosi che hanno ulteriormente esacerbato gli animi, lasciando ferite che non si sono mai rimarginate e, ad ascoltare alcuni protagonisti, non potranno mai esserlo, senza la completa distruzione dell’avversario. 

Chi scrive, non ha mai dimenticato un incontro con i leader della Moschea Bianca di Nazaret, sorge non lontano dalla Basilica dell’Annunciazione. La più antica moschea di Nazaret, centro culturale e religioso della comunità islamica. Eravamo nel 2005, a ridosso della seconda intifada, che aveva nuovamente acuito l’atavico conflitto tra ebrei e palestinesi. Chiesi cosa pensavano delle parole con le quali Giovanni Paolo II chiedeva a tutti i contendenti di fare un passo indietro per trovare una pace giusta: “Non c’è pace senza giustizia. Non c’è giustizia senza perdono”. Non era uno slogan mediatico ma un preciso orientamento religioso, culturale e politico che sintetizzava efficacemente i passi da fare. Mi risposero con durezza che “il sangue non si lava con l’acqua”. Ricordo che Nazaret è una cittadina dello Stato d’Israele e i miei interlocutori erano arabi ma cittadini israeliani. 

“Domani sarà passato un anno dall’attacco terroristico contro la popolazione in Israele, alla quale rinnovo la mia vicinanza”: parole pronunciate ieri da Papa Francesco, al termine dell’Angelus. È l’incipit necessario per un nuovo e ancora più accorato appello alla pace. Il male va chiamato con il proprio nome. A giudizio del Papa quello che è accaduto il 7 ottobre 2023 non è un atto di resistenza ma un’aggressione violenta contro civili innocenti. Un’azione brutale e insensata. Non solo disumana nelle sue forme ma anche irrazionale nei suoi scopi. A meno di non pensare che l’obiettivo era proprio quello di scatenare una guerra di più ampie proporzioni che, nelle intenzioni degli assalitori, avrebbe messo in ginocchio Israele. 

Papa Francesco non offre analisi ma descrive con realistica puntualità quello che è avvenuto: “Da quel giorno il Medio Oriente è precipitato in una sofferenza sempre più grave, con azioni militari distruttive che continuano a colpire la popolazione palestinese”. Da quel giorno… il male è salito sul trono, le armi hanno sostituito le parole, tutti gli appelli alla moderazione sono caduti nel vuoto. Da quel giorno altri attori internazionali sono entrati sulla scena – in primo luogo Hezbollah – e hanno contribuito a rendere ancora più incandescente una situazione già compromessa. Invece di spegnere l’incendio, hanno gettato altra benzina sul fuoco. 

Non pochi avranno da ridire su questa analisi che parte dal 7 ottobre, avranno buone ragioni per ricordare che il conflitto è iniziato molto prima e potrebbero fare una lista di tutte le vessazioni e le limitazioni della popolazione palestinese di Gaza. È vero, mi chiedo tuttavia: cui prodest? A chi giova quel 7 ottobre? Perché mettere in atto una mattanza così crudele? Mi chiedo anche perché Hamas ha sperperato nell’acquisto di armi (e di altri progetti di chiara natura offensiva) ingenti risorse economiche che avrebbero potuto alleviare e sensibilmente migliorare le condizioni sociali della comunità palestinese. 

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È stato detto giustamente che il terrorismo non si combatte con altra violenza ma con la solidarietà sociale. Certo. Siamo tutti d’accordo. Ma non si può negare che la comunità internazionale – le agenzie dell’Onu e l’Unione Europea sono in prima fila – ha investito fiumi di denaro per venire incontro alle necessità sociali della popolazione. Non è mai sufficiente ma è giusto dire che i palestinesi di Gaza (poco più di 2 milioni di abitanti) hanno ricevuto molto di più in proporzione alle grandi masse africane che vivono in condizioni di assoluta povertà. 

Tanto è stato fatto e tanto si dovrà fare, non c’è dubbio ma… se il terrorismo non viene disarmato, se il potere di Gaza resta in mano a coloro che coltivano ostinatamente progetti di opposizione violenta contro Israele, fino al totale annientamento del nemico, tutto quello che si fa rischia di avere l’effetto di una tachipirina dinanzi ad una polmonite. Oggi non possiamo pensare di invertire la rotta, nulla avviene dall’oggi al domani, ma sarebbe necessario compiere gesti di buona volontà: “Non dimentichiamo che ancora ci sono molti ostaggi a Gaza, per i quali chiedo l’immediata liberazione”, ha detto ancora il Papa. Un gesto come questo metterebbe Israele contro il muro delle sue responsabilità e costringerebbe anche la comunità internazionale a prendere una posizione più netta a favore di una popolazione che soffre l’inimmaginabile e che ha bisogno – oggi e non domani – di avere gli aiuti necessari. 

Una settimana fa il Presidente Mattarella si è recato a Marzabotto dove 80 anni fa i nazisti hanno compiuto un eccidio di efferata crudeltà, 770 persone uccise senza pietà, uomini, donne e bambini. Era presente anche Steinmeier, presidente della Repubblica Federale Tedesca. dopo aver ricordato con parole durissime la carneficina, Mattarella ha detto che quell’evento appartiene ad un passato ormai lontano: 

“Italia, Germania ed Europa sono state capaci di risorgere da quell'inferno, costruendo libertà, pace, democrazia, diritti, comunità, una nuova sicurezza. I nostri genitori, i nostri nonni non si abbandonarono alla rassegnazione. Furono capaci di trasformare il dolore più indicibile e inspiegabile in una forza generatrice. In una nuova epoca. In un sistema che, benché imperfetto, intendeva guardare al rispetto della dignità di ogni persona. Non è stato facile ricostruire un continente dalle macerie materiali e morali cui nazismo e fascismo l'avevano condannato. Ha richiesto coraggio e sacrificio”.

Sono passati 80 anni, Italia e Germania sono alleate. Un processo iniziato nell’immediato dopoguerra grazie a leaders che hanno creduto nella pace e nella collaborazione tra i popoli. Un segno di speranza e un augurio per tutte quelle situazioni in cui sembra che il conflitto ad oltranza non abbia alternative. Occorre però iniziare a fare gesti di pace. Oggi e non domani. 




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Silvio Longobardi

Silvio Longobardi, presbitero della Diocesi di Nocera Inferiore-Sarno, è l’ispiratore del movimento ecclesiale Fraternità di Emmaus. Esperto di pastorale familiare, da più di trent’anni accompagna coppie di sposi a vivere in pienezza la loro vocazione. Autore di numerose pubblicazioni di spiritualità coniugale, cura per il magazine Punto Famiglia la rubrica “Corrispondenza familiare”.

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