11 SETTEMBRE
Superstite attentato 11 settembre: “Se muoio oggi, almeno avrò salvato vite”
Probabilmente non esiste serenità più grande e autentica di quella che si prova, vicini alla morte, sapendo di aver speso la propria vita per il bene. Will Jimeno, poliziotto, racconta le sue ore sotto alle macerie di una delle torri gemelle, l’11 settembre; pensava fossero gli ultimi istanti della sua vita. Si è salvato, ma, intrappolato al buio, pensava: “Se muoio oggi, almeno avrò salvato vite”.
Passiamo gran parte del nostro tempo a cercare “cose” che potrebbero farci felici: la stabilità, la sicurezza economica, una bella casa, dei bei posti dove mangiare o trascorrere le vacanze.
Certamente queste cose, nella misura in cui non diventino idoli, rendono più gradevole la vita.
Eppure, se ci fermiamo seriamente a pensare che siamo mortali, che la nostra permanenza sulla terra ha un termine, su cui noi non abbiamo effettivo potere, capiremo che tutto questo è secondario rispetto a un bisogno più grande e viscerale: avere a fuoco la ragione profonda per cui viviamo.
Come possiamo vivere senza disperarci, se non abbiamo una meta più alta, che resti anche quando la materia si corrompe, che oltrepassi il dolore presente, che ci ricordi di un Padre Buono che ci attende sul serio per sempre?
Abbiamo bisogno di “vivere bene”, certo, ma ancora più abbiamo bisogno della vita eterna.
Gesù indica una strada, per dare senso al cammino. È quella del “buon samaritano” (Lc 10, 25-37): ci dice di seminare amore, accogliere fratelli e sorelle, perché solo la carità resta (1Cor 13, 1-13). Arricchirci non ci renderà veramente appagati, abbiamo più urgenza di accumulare tesori in cielo (Mt 6, 19-24).
Oggi, 11 settembre, ricorre il ventitreesimo anniversario dall’attacco terroristico alle Torri gemelle, sferrato nel 2001.
Le persone che si trovavano intrappolate in quelle macerie di fuoco di certo non avrebbero mai immaginato che quel giorno, uno qualunque, sarebbe diventato per alcuni l’ultimo, per altri il primo da sopravvissuti.
Quasi 3.000 persone morirono, oltre 33 mila riuscirono a mettersi in salvo, ma dovettero fare i conti con il fatto che sopravvivere era solo la prima parte di un viaggio molto difficile, come hanno raccontato molti dei superstiti.
È nei momenti più estremi, tuttavia, quelli in cui agiamo senza avere il tempo di ragionare troppo, che si capisce su cosa abbiamo investito nella nostra storia personale, di cosa ci siamo nutriti, per cosa abbiamo scelto di vivere e, in fondo, di morire.
Probabilmente non esiste serenità più grande di quella che si prova quando ci si sente vicini alla morte e si realizza di aver speso la propria vita per il bene, di non averla sprecata.
Will Jimeno, recluta dell’Autorità Portuale di New York e del Dipartimento di Polizia del New Jersey, è rimasto intrappolato tra le macerie del World Trade Center per molte ore.
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Sin da bambino sognava di diventare un poliziotto. È riuscito a salvarsi, ma le ferite riportate in quell’attentato hanno interrotto sua carriera, in quanto è rimasto parzialmente invalido.
L’ansia inimmaginabile di essere rimasto ferito, al buio, senza sapere se sarebbe mai uscito vivo da lì, gli ha causato un disturbo da stress post-traumatico.
Motivo di dolore grande anche essere rimasto accanto, per tutto quel tempo, al corpo senza vita del collega Dominick Pezzulo.
La sua storia è stata raccontata in un film e lui stesso ha voluto scrivere due libri, dove cerca di mettere nero su bianco tutti i motivi per andare avanti e i “come”, perché la vita del superstite è segnata per sempre.
Si preparava a morire, dice, ma dentro di sé una consapevolezza percepita come un dono: non aveva sprecato la sua vita. E pensava: “Se muoio oggi, almeno sono morto cercando di aiutare le persone”.
Una volta liberato, Jimeno si è dovuto sottoporre a numerosissime operazioni e ha dovuto affrontare una faticosa riabilitazione. Eppure, erano le ferite dell’anima quelle più profonde e furono le più difficili da rimarginare.
Quando facciamo del male a qualcuno, dovremmo pensare a questo: è l’interiorità la parte più delicata di una persona, quella più difficile da guarire.
Eppure, “una delle cose che ho imparato”, dice Jimeno, “è non mollare mai”. Ha resistito, sottoterra, invece di lasciarsi andare. Ha atteso, sperato e oggi si augura di essere un esempio della “resilienza dell’anima umana”.
Che questa giornata storica non sia solo per tenere viva la memoria sulle atrocità del passato ma soprattutto quelle del presente.
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