TRASMETTERE LA FEDE

Si può parlare della morte ai bambini? Sì, ecco come!

Giacomino e Beniamino sono due bambini di cinque anni. Vivono in due posti diversi con famiglie diverse. Entrambi hanno una nonna che un giorno muore. Il modo in cui questo evento verrà loro narrato avrà molto a che vedere con la capacità di elaborare il lutto e di vedere nella croce non la fine, ma un passaggio.

La Pasqua per noi cristiani ha un nesso indissolubile con il simbolo che ci caratterizza e rappresenta: la Croce. Non proprio una croce di legno e basta, ma la Croce con sopra un uomo piagato dai dolori, e che noi adoriamo come Dio.

Questo fatto, l’immagine complessiva tale quale appare di una morte atroce come simbolo del nostro credo, ci è sempre valsa l’etichetta di gente parecchio stramba, che ama soffrire e che per una qualche forma di masochismo gratuito si auto-elargisce la visione della sofferenza eleggendola addirittura a proprio credo.

In effetti, noi cristiani non siamo mai stati persone a cui piace “vincere facile”, da duemila anni a questa parte.

Non sconvolge che, oltre allo scandalo generato dai crocifissi nelle scuole negli ultimi anni, si aggiunga di recente una particolare ritrosia a mostrare ai bimbi la croce come simbolo positivo. Alcuni genitori e pensatori liberi sostengono che i bambini non dovrebbero essere esposti a simboli di morte e sofferenza, ne andrebbe della loro salute mentale, sarebbe una violazione della loro sensibilità. Peccato che poi li si esponga a tante immagini di violenza esplicita (o implicita, che è peggio perché il messaggio non decodificato raggiunge direttamente l’inconscio e lì pasce, per poi riemergere in forme e modi inconsulti).

Ma non è questo il punto.

Il punto è: intanto noi adulti come ce la raccontiamo la morte? E di conseguenza come la raccontiamo ai bambini?

Facciamo un esempio pratico.

Giacomino e Beniamino sono due bambini di cinque anni. Vivono in due posti diversi con famiglie diverse. Entrambi hanno una nonna, che un giorno muore.

Giacomino vede dolore e tristezza attorno a lui, i suoi genitori sono profondamente tristi, alcune persone piangono, singhiozzano, si abbracciano, nota molti fiori e colori scuri. Qualcuno gli ha spiegato che la nonna è morta, ma per un “motivo x” legato alla contingenza del caso nessuno ha tempo e modo di dargli altri chiarimenti, che lui vorrebbe e di cui avrebbe bisogno. 

Leggi anche: Che senso ha la sofferenza? La passione di Cristo nei versi di Rebora (puntofamiglia.net)

Elabora in autonomia gli stimoli che sta ricevendo, produce ormoni dello stress e attiva aree del cervello che hanno a che fare con l’istinto della fuga e del panico, non esprime ciò che sta provando e non decodifica i suoi sentimenti di fronte alla morte. Da quel momento, a meno che non intervenga qualcuno o qualcosa a mitigare l’ansia e la fatica del bimbo nell’orientarsi con la situazione in corso, c’è una buona probabilità che Giovannino reagirà per istinto di sopravvivenza in un modo ben preciso ad ogni idea o immagine o evento che gli rievochi la morte, da lì in poi: paura, repulsione, bisogno impellente di cambiare aria.

È sopravvivenza: siamo fatti così, siamo fatti in modo da preservarci e proteggerci dagli stimoli negativi, e per Giacomino la morte probabilmente avrà una connotazione spiacevole e inquietante (perlomeno finché non interverrà qualcosa a scardinare questo imprinting traumatico).

Ora passiamo all’altro bambino.

Anche Beniamino vive una situazione simile, vede i genitori piangere, c’è un po’ di caos attorno, avverte che un fatto grosso è accaduto. A questo punto qualcuno, immaginiamo la mamma o il papà, lo prende in braccio, dicendo che vuole raccontargli una cosa importante. Lo porta in una stanza tranquilla e gli spiega, magari con qualche lacrima, che la mamma e il papà sono molto tristi, perché la nonna si è addormentata ed è andata in cielo. Sono tristi perché per un po’ di tempo non potranno più abbracciarla né vederla, anche se lei continuerà a guardarli e proteggerli dal cielo, Beniamino compreso, e che è normale essere tristi se qualcuno ci manca. Eccetera eccetera. Beniamino capisce, magari piange un po’ perché si sente autorizzato a provare tristezza e paura, ma viene contenuto da un abbraccio che gli racconta che non è solo, che la tristezza davanti alla morte è normale, che la morte è un passaggio e un arrivederci in cielo.

Questo esempio (ridotto all’essenziale) spero possa aiutarci a capire che in realtà non è la morte in sé il vero problema. Non è la malattia la sofferenza o la croce il vero problema per i bambini, ma la narrazione e la testimonianza che offriamo loro su questi temi.

Chiaramente, se noi adulti alla visione della Croce proviamo in primo luogo pena, tristezza, o addirittura orrore e angoscia, sarà difficile sul serio testimoniare qualcosa di diverso ai piccoli.

Dunque, la domanda è: noi cosa vediamo davanti alla Croce? Cosa proviamo, cosa viviamo intimamente davanti a Gesù crocifisso?

Se la risposta ha a che fare con la Resurrezione, forse siamo sulla buona strada.

Se nella Croce vediamo la morte che viene sconfitta definitivamente da un Dio fatto uomo che ci ha amati al punto da dimostrarcelo con i fatti, nella carne, nel modo che ogni grande amico o innamorato o genitore conosce bene (cioè fino a dare la vita), forse siamo sulla buona strada.

Se vediamo nella Croce non un’offerta masochistica di chi ha piacere della sofferenza, ma il sacrificio estremo necessario e dovuto (non ricercato, ricordiamoci che Gesù ha chiesto più volte aiuto a Dio nell’affrontare il calvario) per sconfiggere il principe del male che ci vorrebbe (lui si) schiacciati e vinti dalla sofferenza senza alcun fine di salvezza, forse siamo sulla buona strada.

Dunque, se sapremo raccontare ai bambini la storia dell’Amore che la Croce racconta, l’immagine di una collocazione provvisoria di chi passando attraverso la morte la sconfigge, i bambini capiranno.

Come capiscono i loro supereroi che lottano e si feriscono e perdono pezzi per sconfiggere il male, capiranno che Gesù è il supereroe migliore di tutti, perché li ama sul serio, e la Croce ne è la prova.




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Lisa Zuccarini

Lisa Zuccarini, classe '83, è una moglie e mamma che ha studiato medicina per poi capire alla fine di essere fatta per la parannanza più che per il camice. Vive col marito e i loro due bambini. Dal 2021 ha scoperto che scrivere le piace, al punto da pubblicare un libro edito da Berica Editrice, "Doc a chi?!", dove racconta la sua vita temeraria di mamma h24 e spiega che dire sì alla vocazione alla famiglia nel ventunesimo secolo si può, ed è anche molto bello.

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