CORRISPONDENZA FAMILIARE
I santi hanno custodito l’amore e la gioia. Chiara, Zelia e… tanti altri
1 Luglio 2024
La santità affascina e al tempo stesso impaurisce, non solo perché appare come un traguardo irraggiungibile ma anche perché abbiamo l’impressione che si può arrivare a quella meta solo attraverso grandi sofferenze, solo abbracciando quella croce che tanto ci spaventa. Le testimonianze di santa Gianna Beretta Molla, di Chiara Corbella o di Luigi e Zelia Martin sembrano confermare questa regola. I santi annunciano che la fede è capace di attraversare le tempeste della vita senza smarrire la gioia e la speranza.
La santità affascina, come un raggio di sole in una giornata grigia. E al tempo stesso impaurisce, non solo perché appare come un traguardo irraggiungibile ma anche perché abbiamo l’impressione che si può arrivare a quella meta solo attraverso grandi sofferenze, solo abbracciando quella croce che tanto ci spaventa. La testimonianza di santa Gianna Beretta Molla e quella più recente di Chiara Corbella sembrano confermare questa regola. Nel documento ufficiale che ha dato il via alla causa di canonizzazione di quest’ultima si legge:
«dopo essersi sposata il 21 settembre 2008 si trovò ben presto a vivere situazioni davvero difficili quali la morte di due figli piccoli, poco dopo le nascite. Durante la terza gravidanza, a Chiara fu diagnosticato un tumore. Le eventuali cure avrebbero avuto conseguenze mortali sul bambino che portava in grembo, ma l’attesa ne avrebbe compromesso l’efficacia».
Dinanzi alla scelta, la giovane mamma non ebbe dubbi e scelse di dare massima priorità al bambino che portava in grembo, Francesco, che oggi ha 13 anni.
Quella di Chiara è un’esperienza che ha commosso e commuove tante persone; ma è anche una testimonianza che interroga e mette in crisi la nostra fragile fede. Inutile negarlo: la sofferenza spaventa, suscita un’istintiva ritrosia, appare come un ladro che viene a rubare la felicità a cui abbiamo diritto. In realtà, è bene ribadirlo a scanso di equivoci, la santità non dipende e non si misura con la sofferenza ma con l’amore. Ciò che affascina in queste testimonianze che ho appena citato – icona di tante altre – è la capacità di rivestire di amore la loro vita e di custodire l’amore pur nelle condizioni più dolorose. Un amore che vince la paura, anche quella più atavica. Un amore più forte anche della morte.
Anche la vita di Luigi e Zelia Martin – i santi sposi di cui ci apprestiamo la memoria liturgica (12 luglio) – è stata attraversata dalla sofferenza. Le vicende dolorose che hanno segnato il cammino di questa comunità domestica sono davvero numerose, a cominciare dalla morte di quattro figli in tenera età. Ma c’è un’esperienza che mette tutto a soqquadro e che potrebbe far naufragare la pace e la serenità della famiglia se non fosse fondata sulla fede autentica. Il Getsemani di casa Martin è la malattia di Zelia che in pochi mesi consuma il corpo e conduce alla morte l’ancora giovane sposa e madre. Non aveva ancora compiuto 46 anni!
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Zelia affronta la nuova e imprevista situazione con quel piglio decisionale e carico di ottimismo che ha sempre accompagnato la sua vita: “Checché ne sia, profittiamo del buon tempo che ci resta e non preoccupiamoci; d’altronde sarà sempre e soltanto quello che Dio vorrà”. E sarà veramente così. Le parole che scrive alla cognata, all’inizio della sua via crucis, esprimono la sua fede e diventano una vera regola di vita che rischiara il cammino e le scelte degli ultimi mesi.
È facile amare quando splende il sole ma quando tutto si oscura, quando i dubbi sono o sembrano più forti delle certezze… anche l’amore viene meno e si affievolisce. I santi invece sono l’icona eloquente della fedeltà, annunciano che la fede è capace di attraversare le tempeste della vita senza smarrire la gioia e la speranza.
Qualche giorno fa Enrico Petrillo, marito di Chiara, ha ricordato che quando ha chiesto alla moglie, già gravemente malata, se era dolce la croce che portava, ha risposto con un sorriso affermativo. Non dovremmo essere stupiti, questa risposta è perfettamente in linea con la testimonianza offerta dai santi. Ricordando gli inizi della sua conversione, Francesco d’Assisi offre questa luminosa testimonianza:
Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; 2. e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. 3. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo (FF 110).
Nelle parole del Santo possiamo individuare un criterio che qualifica tutta la vita: “ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo”. Solo l’amore può compiere questi miracoli. “Chi ama, scrive Sant’Agostino, non sente la fatica o, se la sente, ama di sentirla”.
Non senza amarezza Gesù ricorda che “molti sono chiamati, ma pochi eletti” (Mt 22,14). Non tutti quelli che accolgono la chiamata restano fedeli. Non tutti sono disponibili a tradurre coerentemente il Vangelo nei vari ambiti dell’esistenza. I santi hanno accolto la sfida della fede e si sono incamminati senza chiedere sconti e senza mai voltarsi indietro. Hanno perseverato fino alla fine ed oggi risplendono come testimoni luminosi di quella santità che tutti i battezzati sono chiamati a vivere.
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