Mi hanno fatto abortire a 16 anni: oggi difendo il diritto di non abortire

Maria Luisa Di Ubaldo, presidente di FederVita Lazio, Federazione Movimenti per la Vita, Centri di Aiuto alla Vita e Case di Accoglienza del Lazio, è madre di quattro figli e nonna. Racconta di essere arrivata a impegnarsi perché le donne non fossero sole e impaurite di fronte a una gravidanza imprevista, dopo aver lei stessa vissuto un aborto all’età di 16 anni.

Di recente, abbiamo raccolto la preziosa testimonianza di Maria Luisa Di Ubaldo, membro del direttivo nazionale del Movimento per la vita italiano e presidente di FederVita Lazio, che ha risposto telefonicamente ad alcune nostre domande. La nostra conversazione è iniziata riflettendo insieme sulle polemiche sollevate negli ultimi tempi, inerenti alla presenza di volontari per la vita nei consultori. A suo avviso, oltre ad esserci “tanta ideologia”, c’è anche “tanta ignoranza”. Il governo di oggi, infatti, “non si è inventato chissà cosa: nella legge è previsto un eventuale aiuto che possiamo dare come associazioni di volontariato”. 

Si dice convinta che ci sia bisogno di tanta preparazione per poter essere operativi e, infatti, FederVita Lazio prevede che per diventare volontari si segua un corso di formazione, corso che serve sia per diventare volontari sia per poter aprire un CAV.  

Si dice addolorata per le polemiche, soprattutto perché, afferma che, pur di contrastare il governo, “si gioca con la vita delle persone”.

Di Ubaldo afferma convinta che “molte volte si parla di aborto senza avere la benché minima idea di cosa significhi”. Si dice sdegnata per chi parla di “ricatto” economico di fronte all’offerta di aiutare chi vorrebbe tenere il figlio ma non ha mezzi.

Lei sa quanto dolore può provocare interrompere una gravidanza, perché, da giovanissima, ci è passata. Aveva sedici anni quando l’hanno “portata ad abortire”. 

Era il 1981, da poco era stata varata la legge 194 e si respirava “entusiasmo per la conquista” di un presunto diritto delle donne. Per Maria Luisa Di Ubaldo l’aborto rappresenta, però, solo un tragico inganno. La libertà che propone, infatti, non è reale, ma fittizia, perché lascia dietro di sé il vuoto della morte.

Lei e i suoi genitori si arresero ad una mentalità per cui, in certi casi, interrompere la gravidanza è “l’unica via d’uscita”. Avrebbero scoperto, col tempo, che non è così. 

L’aborto non è mai l’unica possibilità. Oggi dice che i suoi genitori furono “le prime vittime di una menzogna”, seguendo la scia di una legge che “avrebbe dovuto tutelare la maternità, invece rese legale l’omicidio di Stato!”.

Ripercorre il suo vissuto. Quando scoprì di essere incinta, il ragazzo se ne lavò le mani. Non ne voleva sapere nulla. La madre di lui, al telefono, la trattò malissimo e disse a Maria Luisa di non farsi più sentire.

Quando Maria Luisa raccontò tutto alla sa famiglia, la portarono da un ginecologo, che stabilì l’epoca della gestazione: erano trascorsi più di 90 giorni, ovvero era stato superato il limite per poter abortire. Il medico consigliò Villa Gina: una clinica conosciuta per gli aborti illegali.

Dire addio a quel bambino fu un dolore immenso; le lasciò una ferita profonda.

Durante l’intervento piangeva a dirotto, mentre le infermiere parlavano del più e del meno e la rimproverano: “Ma cosa piangi! Smettila, ci dai fastidio!”.

Voleva scappare, voleva suo figlio. Lo gridava, ma nessuno la ascoltava. 

Al momento del risveglio, nel suo cuore ci fu il vuoto. 

Leggi anche: I diritti della donna? Sì, ma perché il bambino non ha alcun diritto? (puntofamiglia.net)

Maria Luisa aveva sensi di colpa, paura del giudizio, si sentiva incompresa e spaesata. 

La sua vita ricominciò, a poco a poco, quando conobbe Antonio. Aveva 17 anni. Gli raccontò la sua storia, lui non scappò, non la giudicò, anzi, le tese una mano.

Al suo fianco, le tornò la voglia di vivere e di stare in società. Riprese a uscire, a fare attività. Ad un certo punto pensò di aver persino superato le sue sofferenze. Non era così.

Voleva diventare mamma e con Antonio decise di avere un figlio che non si fece attendere.

Aveva ventitré anni e pensava di essersi lasciata il passato alle spalle, però il suo stress emotivo si manifestò con la costante paura di perdere la figlia. Fu costretta ad entrare in analisi e capì che il macigno dell’aborto era ancora lì.

Contemporaneamente al percorso psicologico, iniziò un percorso di riconciliazione con Dio.

Il primo passo da fare era riconoscere il figlio dandogli un nome: poiché se l’era immaginata femmina, la chiamò Daniela, poi dovette accettare che nessun figlio avrebbe mai potuto sostituirla, perché unica e irrepetibile. Per lei ha continuato a lottare, ricercando la verità per trovare giustizia.

Iniziò ad approfondire la pratica dell’aborto: voleva capire fino in fondo ciò che le era stato fatto.

Arrivò la pacificazione per la scelta dei suoi genitori. Diventando mamma, comprese il dramma che avevano vissuto e il desiderio di proteggerla. Adesso, men che meno, li giudica o li biasima. Tantopiù perché gli stessi genitori si sono poi pentiti per averla indirizzata verso l’aborto: “Se avessimo saputo ciò che sappiamo oggi, se qualcuno ci avesse aiutato a capire e a fare la scelta giusta, quel figlio l’avresti con te!”.

La sua vera risalita iniziò quando poté aiutare una donna a non abortire, portava il nome che aveva dato a sua figlia: Daniela. 

Fu l’inizio della sua missione a favore della vita e al fianco delle donne.

Oggi, per lei, ogni bambino salvato dall’aborto e riconsegnato all’amore della sua mamma è una grande vittoria, ma ha lo stesso amore e la stessa accoglienza anche per le donne che decidono alla fine di abortire

“A volte ritornano”, mi confida. “Tornano per parlare, per raccontare come si sentono, a volte semplicemente per portare dei vestiti o qualcos’altro. Tante volte hanno bisogno di tirare fuori”.

Nei CAV sono accolte anche loro: ci tiene a farlo sapere. Né più, né meno delle donne che invece scelgono di portare avanti la gravidanza. 

Rifugge, quindi, ogni accusa di manipolazione o di ricatto. I CAV sono luoghi di accoglienza per le donne tutte, per chiunque arrivi con una gravidanza difficile. Resta la loro casa – mi spiega – a prescindere che tengano il bambino oppure no. I volontari per la vita hanno a cuore tutte le donne e ogni loro ferita. 

Oggi Maria Luisa ha ritrovato la pace e continua con passione la sua missione, testimoniando che nessun dolore è inutile ed invincibile, se lo si lascia fruttare nelle mani di Dio.

Continua ad asciugare lacrime e a fasciare cuori feriti, certa che nessuna storia vada giudicata, mentre tutte vanno accolte. Nessuna donna sia costretta ad abortire: questo il suo punto fermo, il motore che la spinge a continuare, imperterrita, in ciò che sta facendo, nonostante il fango delle ideologie e l’ostilità di persone che non hanno la minima idea di cosa avvenga nei luoghi dove l’unica cosa che conta è accogliere le fragilità delle donne. 




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Cecilia Galatolo

Cecilia Galatolo, nata ad Ancona il 17 aprile 1992, è sposata e madre di due bambini. Collabora con l'editore Mimep Docete. È autrice di vari libri, tra cui "Sei nato originale non vivere da fotocopia" (dedicato al Beato Carlo Acutis). In particolare, si occupa di raccontare attraverso dei romanzi le storie dei santi. L'ultimo è "Amando scoprirai la tua strada", in cui emerge la storia della futura beata Sandra Sabattini. Ricercatrice per il gruppo di ricerca internazionale Family and Media, collabora anche con il settimanale della Diocesi di Jesi, col portale Korazym e Radio Giovani Arcobaleno. Attualmente cura per Punto Famiglia una rubrica sulla sessualità innestata nella vocazione cristiana del matrimonio.

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