“Si può guarire? Forse. Ma di sicuro si può curare. Il segreto è tutto qui”: è la domanda di overture di un libro stupendo di Sylvie Menard, oncologa, ex direttore del Dipartimento di oncologia sperimentale all’Istituto dei Tumori di Milano. Un testo ricco di speranza che consiglio di leggere perché dirada molti dubbi sul tema dell’eutanasia e della cosiddetta “dolce morte”. Tema affrontato non solo da un’esperta di tumori ma anche da non credente così come si definisce. Era il 2005, si trovava alla mensa dell’ospedale quando un capogiro le procuro uno svanimento. I colleghi medici le consigliano di approfondire. Gli esami mostrano senza dubbio un tumore del midollo, un tumore non guaribile.
Sylvie è francese, nata e cresciuta a Parigi, ha frequentato la Sorbona ed è arrivata in Italia nel 1968, per amore. Allieva di Umberto Veronesi, sull’eutanasia ha sempre condiviso con lui la sua impostazione di pensiero fino a quando si è ritrovata anche lei malata di cancro. «Ho conosciuto la impossibilità, d’un tratto, di fare qualsiasi progetto. Come avere davanti un muro. Il futuro, semplicemente non c’era più. Ho smesso di mettere nuove piante in giardino. Tanto, dicevo, non le vedrò crescere». Si convince anche di non volersi curare. «Era maggio, i primi caldi. Avevo voglia di vivere quell’estate. Perché curarmi, se tanto non posso guarire? Avevo voglia di restare ancora fra i sani». Ma il giorno dopo sceglie: farà la terapia. «Qualcosa in me ha reagito. Anche senza guarire, prolungare la vita di qualche anno, improvvisamente mi è diventato fondamentale, volevo vivere fino in fondo».
Ciò che domandano davvero i malati di cancro, dice la Menard, è di non essere abbandonati, di non sentirsi soli. «In Olanda – dice – ci sono dieci mila malati che chiedono l’eutanasia all’anno. L’80 per cento sono malati di cancro, assistiti nel migliore dei modi dal punto di vista medico. E allora, mi domando, come mai tante richieste? Ho il dubbio che sia perché è gente sola, che avverte attorno una tacita pressione a levare il disturbo. Che avverte che, mentre viene ottimamente curata, la sua presenza è ormai di troppo. Che, se muoiono, qualcuno dirà: finalmente. E allora si adeguano, e obbediscono». Quando la malattia arriva spesso tutti si dileguano, pensando di non essere di aiuto e questa solitudine aumenta la sensazione di essere un peso.
Ne libro Sylvie racconta che l’orrore di sapersi malata ha un’altra faccia, fatta della capacità di gioire della propria buona salute finché c’è, della voglia di vivere fino in fondo e con ottimismo il tempo che resta, del cambiamento radicale di sensibilità e di opinione rispetto a temi come il diritto dei malati a una vita degna, il testamento biologico, l’eutanasia. Un libro che tutti dovrebbero leggere prima di parlare di “diritto a morire”.
Il Caffè sospeso...
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Il caffè sospeso è un’antica usanza a Napoli. C’è chi dice che risale alla Seconda Guerra Mondiale per aiutare chi non poteva permettersi nemmeno un caffè al bar e c’è chi dice che nasce dalle dispute al bar tra chi dovesse pagare. Al di là delle origini, il caffè sospeso resta un gesto di gratuità. Nella nuova rubrica che apre l’anno 2024, vorrei raccontare storie o suggerire riflessioni sull’amore gratuito e disinteressato. Quello nascosto, feriale, quotidiano che nessuno racconta, che non conquisterà mai le prime pagine dei giornali ma è quell’amore che sorregge il mondo, che è capace di rivoluzionare la società dal di dentro. Buon caffè sospeso a tutti!
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