L’aborto, a volte, è solo la punta di un iceberg. La testimonianza di Davide

triste

Tempo fa una ragazza ha abortito perché era incinta di un uomo sposato. Faceva l’amante e lui un figlio, da una relazione extraconiugale, non lo voleva. Lei si sentiva sola, impaurita. Un amico, Davide, sostenitore dell’aborto, l’ha accompagnata: il grand’uomo che l’aveva messa incinta, infatti, non si è degnato nemmeno di portarla in ospedale in un momento così delicato e che li coinvolgeva entrambi…. 

Davide si è offerto di accompagnare ad abortire Elisabetta (nome di fantasia), pensando di fare il buon samaritano, con l’idea granitica che l’aborto fosse un diritto e lui non dovesse avere voce in capitolo.

Quel pomeriggio – lo ricordo come se fosse ieri – Davide, mio amico, mi ha chiamato in lacrime, per raccontarmi cosa gli era accaduto. “L’aborto è un omicidio legalizzato”, mi ha detto. Era scosso. Non mi aveva dato nemmeno il tempo di dire “pronto”. Sentiva il bisogno di confidare il dolore che aveva provato. 

Soltanto dopo sono arrivati i sensi di colpa per non aver detto alla sua amica che, se avesse voluto, un’alternativa ci sarebbe stata, che lui l’avrebbe aiutata, visto che le voleva – e le vuole ancora – un gran bene. Pensava di essere nel giusto facendosi gli affari suoi e aiutandola a esercitare un suo diritto. Ora, però, che quel futuro figlio non c’era più e la sua amica si sentiva delusa dal compagno, vuota e amareggiata, pensava che lui, forse, avrebbe potuto fare di più.

Questa storia mi ha fatto pensare che un tempo ci si domandava cosa fare per evitare, dove possibile, un aborto… oggi no. O meglio, non si dovrebbe. Il concepito deve sparire dal dibattito pubblico e la donna deve essere lasciata sola.

Nessuna domanda è ammessa, nessuna mano tesa. Il dialogo su questo tema è considerato persino offensivo. L’aborto è praticamente un tabù, è solo un fatto personale della donna.

Io, però, delle domande – senza giudizi che non spettano a me! –  me le voglio fare. 

Molti sostengono che un mondo senza aborto è un’utopia. Garantirlo per legge sembra allora inevitabile, perché tante donne sentono la necessità di ricorrervi.

Da qui, la necessità di una legge. Non sono un giudice, non sono una politica e vorrei guardare la questione da un punto di vista esclusivamente educativo

In primis mi chiedo: davvero un mondo senza aborti è irrealizzabile? Sì, è irrealizzabile allo stato attuale. 

Un mondo senza aborto non è compatibile con la visione riduttiva della sessualità che, spesso, consegniamo ai nostri giovani

Non sarebbe irrealizzabile, invece, in un mondo dove l’amore fosse considerato il perno della relazione tra uomo e donna. E non lo sarebbe in un mondo che non penalizza la donna perché madre.

Addossare ogni responsabilità sulla donna è meschino e ipocrita. Perchè, ammettiamolo, gran parte della società – basti guardare a tanti ambienti di lavoro! – vede nella maternità il peggior ostacolo alla realizzazione personale. È gran parte della società a promuovere la cultura pornografica in cui siamo immersi, che porta a vivere rapporti intimi con persone che mai si vorrebbero a fianco nell’impresa di diventare genitori. Per non parlare dei vuoti affettivi non risolti che portano a cercare compensazione e non amore. 

Se quell’uomo o quella donna va bene solo per una notte, non è semplice – anzi è quasi inimmaginabile – pensare di vincolarsi a vita con un bambino. 

Proprio oggi, sotto agli occhi, mi è capitato l’ennesimo post che inneggiava all’aborto libero e sicuro e mi sono trovata a pensare che l’unica cosa “libera e sicura” di cui avremmo bisogno è un amore vero, degno di questo nome. 

Il nostro impegno di educatori dovrebbe essere principalmente nel promuovere l’amore, affinché sempre meno persone finiscano in relazioni superficiali e tossiche. La priorità, se amiamo la vita, è che le donne scelgano e vivano relazioni in cui si sentono così al sicuro, così amate, accolte, desiderate, sostenute da non avere bisogno di scendere in piazza, con la rabbia nel volto, per dire che l’unica cosa che vogliono è poter abortire nell’ospedale più vicino a casa. 

Non lo sanno, ma non avrebbero bisogno di quel “diritto”, se avessero esercitato il diritto di chiedere di essere prese sul serio. Se sapessero che possono scegliere di donare sé stesse, il proprio corpo, compresa la loro fertilità, solo alla persona che sappia meritarle, ad un uomo realmente solido, coraggioso, onesto, pronto a dare la vita per loro.

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Eh, ma l’amore vero non esiste, prima o poi tutti ti deludono… La vita non è un film”.

Menzogna: l’amore vero esiste. Per trovarlo, però, devi volerlo. E volerlo implica scartare tutto ciò che amore non è. Implica la radicalità di tagliare relazioni sbagliate. Implica un lavoro interiore e anche spirituale.

Guardo con dolore le donne che avvertono l’urgenza di tutelarsi da un possibile figlio. Provo una tenerezza indicibile per loro. Per le loro paure. 

Personalmente, non mi serve una legge sull’aborto, perché so che sono amata da dodici anni dalla stessa persona, so che mio marito accoglierebbe in qualsiasi momento un altro figlio, che ogni difficoltà sarebbe affrontata insieme.

Mentre ringrazio per i doni ricevuti, però, mi dico anche che questi doni non sono né piovuti dal cielo, né sono solo per me.

Certamente, a volte, dietro alla scelta dell’aborto ci sono dei problemi economici e, proprio per questo, mi avvilisce quando si parla di “ricatto economico” subito dalle donne da parte dei volontari per la vita per tenere i loro figli: se si può fare qualcosa perché tutti abbiano la possibilità materiale di tenere i loro figli, perché impedirlo? Perché proprio i partiti che dovrebbero garantire le pari opportunità si battono perché la donna non riceva aiuti economici, se necessari? (Qui non è più neppure ideologia, ma follia pura).

Ad ogni modo, in tanti casi, dove l’aborto è difeso con le unghie e con i denti, c’è una ferita precedente, una ferita nella relazione uomo-donna.

Mi sono messa molte volte nei panni di una donna che si sente sola con un macigno nel cuore. Ho scritto un romanzo dove la protagonista è una donna incinta, studentessa di medicina molto giovane, abbandonata dal padre del bambino, ripudiata dalla famiglia (“o abortisci o scordati che ti aiutiamo”), che ovviamente non vede nessuna alternativa all’aborto (Tutto procede come imprevisto. Il tunnel diventato ponte grazie a Gianna Beretta Molla, Mimep Docete). 

Penso, però, da mamma, da catechista, da cittadina, che dovremmo fare il possibile perché non si crei affatto il terreno fertile per l’aborto e perché nessuna donna sperimenti che il mondo crollerà sulle sue spalle se non sceglierà di abortire.

Mi chiedo spesso cosa ha salvato me, dall’essere una di quelle donne. Perché potevo esserci anche io. Ripenso al mio cammino, alle tante fragilità che avevo, ma anche alle persone che mi hanno sostenuto nella fase della formazione.

Ripenso al fatto che, prima di conoscere mio marito, ho dovuto scartare tanti approcci e possibili relazioni che non mi avrebbero portato fin qui.

Ho dovuto dire dei no: a dei ragazzi troppo fisici, che volevano tutto e subito, a dei ragazzi bugiardi, a dei ragazzi che non condividevano per nulla i miei valori, a dei ragazzi che non sapevano guardarmi nella mia unicità, ma semplicemente in quel momento “capitavo io”. 

Scartavo quelle possibili relazioni (non senza frustrazione, perché stare sola è difficile!), non appena mi rendevo conto che non guardavamo nella stessa direzione, ma ho potuto farlo perché avevo ricevuto un’educazione affettiva degna di questo nome. E perché mio padre aveva amato mia madre: lui è stato il mio prototipo di uomo e sono stata davvero molto aiutata da questo.

Se non avessi avuto la mia famiglia, se non avessi scoperto il Vangelo, se non mi avessero insegnato ad amarmi, se non mi avessero mostrato come si sta in coppia e quali sono i nuclei di morte da riconoscere, se non avessi degli studi di bioetica alle spalle, se non avessi stima negli uomini in generale (perché gli uomini veri esistono!), chissà… forse adesso sarei anche io in piazza a gridare che “il corpo è mio”, perché non saprei che c’è molto, molto di più da difendere.

Ho capito che il primo diritto di una donna (e lo deve a sé stessa!) è quello di non accontentarsi del non-amore… è quello di poter dire un forte e deciso “no” a tutte le relazioni che la spengono, che non la valorizzano, che non la fanno sentire abbastanza. A tutte le relazioni dove le sue paure non sono né capite né accolte, a tutte le relazioni in cui non è sé stessa. 

Io sogno un mondo dove le donne che hanno abortito siano abbracciate, non giudicate, ma sogno anche un mondo dove l’aborto non sia più necessario. Dove nessuna donna debba trovarsi in ospedale da sola ad abortire perché l’uomo che l’ha messa incinta – sposato con un’altra – è un vigliacco, un inetto, un doppiogiochista.

Sono utopista? No. Sono cristiana.

Seguo un Dio che, pure mentre veniva ucciso, continuava ad amare. 

Non sono utopista, sono una sognatrice. Ho scelto di sognare con Lui. E vorrei aiutarlo a cambiare questo mondo; a testimoniare che il corpo è “nostro”. Sì, in un certo senso è così, ma ci è stato donato per amare. Tutto ciò che sia meno di questo, non è per il nostro bene. Scendere in piazza per ampliare il “diritto all’aborto” ci farà avere meno paura, ma non placherà la nostra sete di amore vero.




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Cecilia Galatolo

Cecilia Galatolo, nata ad Ancona il 17 aprile 1992, è sposata e madre di due bambini. Collabora con l'editore Mimep Docete. È autrice di vari libri, tra cui "Sei nato originale non vivere da fotocopia" (dedicato al Beato Carlo Acutis). In particolare, si occupa di raccontare attraverso dei romanzi le storie dei santi. L'ultimo è "Amando scoprirai la tua strada", in cui emerge la storia della futura beata Sandra Sabattini. Ricercatrice per il gruppo di ricerca internazionale Family and Media, collabora anche con il settimanale della Diocesi di Jesi, col portale Korazym e Radio Giovani Arcobaleno. Attualmente cura per Punto Famiglia una rubrica sulla sessualità innestata nella vocazione cristiana del matrimonio.

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