CORRISPONDENZA FAMILIARE

La libertà, tutta la libertà senza sentire ragioni. Abortisti e pro-life a confronto

22 Aprile 2024

Negli Stati Uniti gli accaniti sostenitori dell’aborto si definiscono pro choice, quelli che difendono la libertà di scelta, quelli che permettono alla donna di scegliere in tutta libertà se accogliere o meno la vita che portano in grembo. Se fosse davvero così le loro energie – impegno culturale e mediatico – sarebbero equamente spese per favorire l’una e l’altra scelta, cioè per aiutare la donna a compiere una scelta non imposta dalle condizioni ambientali avverse – quali che siano adesso non conta – ma dettata dalle convinzioni più profonde. Se fosse così, sarebbero contenti di offrire alla donna tutti i servizi possibili al fine di renderla pienamente consapevole delle sue decisioni. Ma così non è! 

In ogni ambito della vita, privata e pubblica, la libertà si esercita correttamente solo in presenza di una corretta conoscenza di tutti i fattori in gioco. Per guidare un’auto non basta avere dimestichezza con il veicolo, occorre anche acquisire una conoscenza dettagliata delle regole che favoriscono un traffico ordinato. Esiste un Codice della strada. Prima di ogni intervento chirurgico si chiede al paziente e/o ai suoi familiari di manifestare la propria volontà firmando un documento che si chiama consenso informato. Il paziente o chi per lui deve sapere quali sono i rischi legati all’atto sanitario. Anche in situazioni gravi, non è scontato che il paziente scelga di sottoporsi all’intervento. Si chiama libertà. 

Potrei continuare con gli esempi. Mi spiegate perché quando si apre il capitolo aborto, quelli che lo difendono a spada tratta affermano che la libertà si esercita tanto più correttamente quanto meno si conoscono tutti i fattori, ivi compreso i rischi a cui si va incontro? La risposta più ragionevole è quella che non possiamo caricare la donna di scrupoli etici che farebbero aumentare il disagio emotivo e potrebbero causare danni alla sua salute psichica. La risposta meno ragionevole (uso un eufemismo) è quella di chi dichiara: “L’aborto è un mio diritto, non voglio essere ricevere alcuna informazione, spetta a me decidere del mio corpo”. Insomma, ritorniamo all’ormai classico: “l’utero è mio e lo gestisco io”. 

Peccato che in quel momento nel corpo della donna c’è un altro soggetto, quello di cui nessuno parla, un bambino che ha timidamente iniziato il suo curriculum vitae. Peccato che c’è una percentuale non marginale di donne indecise. Una su tre, stando ai dati del Ministero della salute. Peccato che l’aborto non si cancella dalla coscienza con un colpo di spugna, malgrado le affermazioni pubbliche di chi si vanta di aver abortito. Peccato che tante donne devono convivere tutta la vita con la coscienza di aver volontariamente soppresso un figlio. Un figlio unico e irripetibile. 

Stando alla Legge 194, l’aborto non è un diritto ma un’opzione, una scelta permessa come ultima ratio dopo aver valutato e cercato di rimuovere le cause che inducono ad interrompere la gravidanza. Questo è scritto nella Legge. Ma chi oggi si straccia le vesti perché il Governo chiede di inserire nei consultori anche i pro-life, si guarda bene dal citare il testo legislativo. Stando alla Legge, occorre rimuovere o tentare di rimuovere le cause? Perché? Evidentemente, pur riconoscendo la possibilità di ricorrere all’aborto, i legislatori ritengono che occorre dare alle donne la libertà di evitare di ricorrere ad una scelta così drastica. E come facciamo a rimuovere le cause, se manca un’oggettiva informazione e se ostracizziamo coloro che possono dare una mano a trovare soluzioni concrete che favoriscono l’accoglienza della vita?

Quando appare un problema sociale, di qualunque tipo, si invoca sempre una maggiore informazione e formazione di tutti gli operatori sociali, a partire dalle scuole. Dopo un episodio efferato di violenza contro le donne i politici si affannano a dire che è necessario investire sulla formazione e sulla prevenzione. Si moltiplicano i centri anti-violenza e le iniziative incoraggiate e finanziate dagli enti pubblici. Tutto questo è lodevole, è il segno di una società che non si rassegna al male ma…

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Quando si tratta dell’aborto, nessuno chiede più informazione, come se tutti già sapessero tutto quello che c’è da sapere. Si parla sempre e solo della donna, dimenticando che c’è in gioco la vita di un bambino. È una menzogna. Una plateale menzogna che potrebbe essere smentita facilmente se, invece di fare una cieca propaganda ideologica, ci limitassimo a raccontare il meraviglioso processo della vita che, fin dall’inizio, vede il bambino in dialogo con la mamma. Non c’è bisogno di parlare dell’aborto e di tutte le sue implicazioni morali, basta mostrare il processo della vita per accrescere la consapevolezza e dare alla donna la possibilità di scegliere in tutta libertà. 

La libertà che oggi s’invoca è quella di chi non vuole sentire ragioni, si rifiuta di ascoltare gli argomenti dei pro-file, sprezzantemente presentati come anti-abortisti. È la libertà di chi non si vuole confrontare con la realtà. Una libertà che non vuole sentire ragioni è anche una libertà priva di ragionevolezza. Una libertà che difende i diritti della donna contro i diritti del bambino. Una libertà che favorisce la guerra tra madre e figlio. Una libertà nemica dell’uomo. 

“L’utero della Vergine fu la sua stanza nuziale, poiché è là che si sono uniti lo Sposo e la sposa, il Verbo e la carne”: sono delicate parole di sant’Agostino, vecchie di sedici secoli fa ma più attuali di tanti slogan beceri che promuovono violenza. 




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Silvio Longobardi

Silvio Longobardi, presbitero della Diocesi di Nocera Inferiore-Sarno, è l’ispiratore del movimento ecclesiale Fraternità di Emmaus. Esperto di pastorale familiare, da più di trent’anni accompagna coppie di sposi a vivere in pienezza la loro vocazione. Autore di numerose pubblicazioni di spiritualità coniugale, cura per il magazine Punto Famiglia la rubrica “Corrispondenza familiare”.

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