“Tutto a scuola mi parlava di sconfitta. Ma poi c’era lei”: ex alunno alla sua insegnante
13 Febbraio 2024
Un’insegnante in pensione riceve un messaggio da un suo ex alunno: “Le scrivo questa lettera perché lei resta una delle persone che hanno maggiormente influenzato la mia vita e la mia persona”. Segue il racconto degli anni non facili della scuola media, in una classe “difficilissima”. “Tutto in quella scuola mi parlava di sconfitta. Ma poi c’era lei…”
Non vedevo quella collega da molto tempo. L’occasione è stata il concerto di Natale dei nostri allievi. L’ultimo lo aveva organizzato lei, prima del periodo di emergenza sanitaria per il Covid. Doveva essere presente alla ripartenza. È contenta. È in pensione da pochi mesi. È un fiume in piena. Le è capitato qualcosa che si augura ad ogni docente.
Scrivo questo post nei giorni in cui la scuola, per noi insegnanti, sembra essere meno sicura del vecchio West delle pellicole di una volta. Scrivo con l’idea di bilanciare una narrazione che dà troppo risalto al marciume, afflitta com’è dal mal di cronaca che tanto serve ai venditori di copie.
Qualcuno è arrivato ad invocare l’eliminazione della scuola perché “tanto non serve più a niente!”
La collega è raggiante perché ha ricevuto una lettera da un suo (e mio) ex alunno.
La chiamo la sera del concerto per parlare più diffusamente. Dal cellulare la sua voce mi racconta di questo nostro ex alunno che, a conclusione del suo straordinario percorso scolastico, ha avvertito il bisogno di scriverle per ringraziarla. Il giovane si è diplomato in quattro anni, anticipando il quinto anno. Si è laureato in filosofia in tempi rapidissimi e a soli 21 anni è già destinatario di importanti borse di studio e proposte di collaborazione. La lettera è una carezza, una perla rarissima in questo tempo irriconoscente. “Le scrivo questa lettera perché lei resta una delle persone che hanno maggiormente influenzato la mia vita e la mia persona”.
Segue il racconto degli anni non facili della scuola media, in una classe “difficilissima”, finendo con l’essere l’obiettivo “della violenza degli altri”.
“Tutto in quella scuola mi parlava di sconfitta. Ma poi c’era lei” che “ci insegnava ad amare la vita e, cosa più importante, ad affrontarla”, “a cercare il senso profondo che si cela nelle cose” e a “non mollare”. Il giovane ricorda nella lettera di quando la prof gli fece recapitare, il giorno prima dell’intervento per un tumore alla gamba, la canzone: Non mollare mai, cantata dai suoi compagni di classe. “Quanto avevo bisogno di quel messaggio in quel momento!”
Le promise di non mollare mai e così è stato finora. Oggi, finalmente, ha deciso di fare i conti con “i demoni” che si porta dentro da quegli anni difficili. Infine, ecco la considerazione che lo ha fatto decidere di scrivere: “Anche la cosa più piccola che sono riuscito a realizzare la devo a lei, alla fantastica insegnante che è stata e che spero di essere anch’io un giorno. Se riuscirò a cambiare la vita anche di un solo ragazzo, così come lei ha cambiato la mia, la mia missione avrà avuto un senso”. Fin qui la meravigliosa lettera.
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Al telefono la collega si (e mi) chiede perché questo messaggio sia arrivato solo dopo la pensione. Quanto ci sarebbe bisogno di avere simili gratificazioni mentre si svolge questa difficilissima missione, oggi così povera di soddisfazioni! Scherzando, ma non troppo, quando qualcuno mi chiama professore, ripeto che questo titolo oggi non si augura a nessuno. Non lo penso, ovviamente. Ma quanto è difficile osservare dalla cattedra l’evaporazione della stima sociale che avvolge i docenti. È vero, non tutti sono come la mia collega, non tutti scommettono sulle capacità dei ragazzi. Molti, addirittura, sembrano stare in cattedra per affossare. L’insegnante esiste per sorreggere ciò che non sta ancora in piedi, per scommettere sul cavallo che sembra perdente, per provare a realizzare ciò che ai più sembra nemmeno immaginabile. È colui che lavora per ciò che non si vede ancora. Lavora a perdere. Semina senza la sicurezza di raccogliere. Probabilmente non vedrà mai i risultati del proprio lavoro, alcune volte perché questi non arrivano, altre volte perché, quando arrivano, non gli vengono riconosciuti.
Uno dei maggiori scrittori contemporanei, Daniel Pennac, racconta spesso la sua storia molto simile a quella del nostro allievo: “Gli insegnanti che mi hanno salvato – e che hanno fatto di me un insegnante – non erano formati per questo. Non si sono preoccupati delle origini della mia infermità scolastica. Non hanno perso tempo a cercare le cause e tanto meno a farmi la predica. Erano adulti di fronte a adolescenti in pericolo. Hanno capito che occorreva agire tempestivamente. Si sono buttati […] Giorno dopo giorno, ancora e ancora…Alla fine mi hanno tirato fuori. E molti altri con me. Ci hanno letteralmente ripescati. Dobbiamo loro la vita.”
La storia vera della collega vuole essere una finestra su un mondo che non viene raccontato, quello di chi sa riconoscere nel lavoro di un docente un fondamento del proprio essere. Sempre di più, i docenti di oggi si trovano di fronte a adolescenti in pericolo e sanno di non essere formati per questo. Ma è vero anche che il mondo della scuola è pieno di storie come queste due. Raccontarle non fa “vendere”, purtroppo. Ma fa bene all’anima di molti che vivono intorno alla cattedra. Se un giorno dovesse arrivare qualche soddisfazione esplicita, come quella postuma giunta alla collega, servirà solo a coronare una vita spesa nella speranza di servire quella dei nostri ragazzi. Servirli (certe volte anche contro la loro volontà) è già un premio. Ecco la cosa più sconvolgente che si possa scrivere oggi, parlando di scuola.
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