CORRISPONDENZA FAMILIARE
“Mi lascio trasportare dalla Provvidenza”. La vita di Benedetto XVI
8 Gennaio 2024
“Sono semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio in questa terra” (28 febbraio 2013), con queste parole Benedetto XVI salutava il popolo nell’ultima udienza pubblica prima di lasciare il ministero petrino. Ora che ha concluso il suo pellegrinaggio la sua vita appare in tutta la sua luminosità come un’esperienza intessuta di mistero, vissuta in compagnia di Dio.
In una lettera a Esther Betz, un’amica giornalista, Papa Benedetto rivelò una regola che lo aveva sempre accompagnato: “Non pianifico nulla (non l’ho mai fatto, in realtà), ma mi lascio semplicemente trasportare dalla Provvidenza, che con me non è stata affatto cattiva, anche se tutto è andato in modo molto diverso da come avevo immaginato” (la citazione è riportata nel libro del suo segretario, mons. Georg Gänswein: Nient’altro che la verità, 12).
Nessuno può mettere in dubbio che Joseph Ratzinger ha dato un contributo fondamentale alla vita della Chiesa. Prima come teologo, poi come vescovo e infine come Papa. Un contributo che spesso – e giustamente – viene letto anzitutto nella sua dimensione dottrinale. Non mancano coloro che amerebbero vederlo insignito del titolo di Dottore della Chiesa. Anch’io sono personalmente convinto che merita questo riconoscimento. Ma prima del teologo c’è il credente, l’uomo di fede che non ha usato lo studio come piedistallo per acquisire onori e privilegi ma lo ha vissuto come servizio umile alla Chiesa. Prima del teologo c’è il sacerdote che ha scelto di consacrare la sua vita al Signore, la sua vita in tutti i suoi aspetti.
Nato al mattino del Sabato Santo, il 16 aprile 1927, ricevette il battesimo con l’acqua appena benedetta. Una sorta di sigillo, come lui stesso ha riconosciuto: “I miei genitori ci tenevano molto. Lo consideravano un segno premonitore e me l’hanno detto fin dall’inizio” (Ultime conversazioni, 54). La famiglia ha avuto un ruolo fondamentale nella sua crescita e nel suo cammino vocazionale, in modo particolare Benedetto XVI ricorda la testimonianza del papà: “era un uomo straordinariamente pio, che pregava molto, con una fede molto radicata nella Chiesa” (Ib. 55). Un uomo che chiedeva a tutti i figli di studiare con impegno ma senza cercare di diventare grandi (Ib. 64). La scelta del sacerdozio di entrambi i figli era per lui motivo di profonda gioia.
Entrò in seminario nel 1939, all’età di 12 anni, pochi mesi dopo iniziava la seconda guerra mondiale che per sei anni avrebbe insanguinato tutta l’Europa. Il cammino verso il sacerdozio fu attraversato da non poche nubi, anzi da tempeste che avrebbero potuto spazzare gli ingenui sogni della giovinezza. Il nazismo appariva trionfante e capace di annientare la Chiesa: “Per noi era chiaro che in quella società non avremmo avuto un futuro”, confessa Benedetto XVI (Ib. 67). Furono anni assai duri che temprarono ulteriormente il carattere e confermarono la vocazione.
E tuttavia, per quel gioco misterioso della Provvidenza che sa trasformare il male in bene, fu proprio in quelle vicende che comprese ancora meglio quanto sia importante custodire la fede per resistere al male. In questi anni emerge con crescente chiarezza una verità che avrebbe accompagnato tutta la sua vita e la sua opera: Dio appartiene ai beni essenziali dell’umanità. Durante gli anni del suo pontificato riproporrà in mille modi il primato di Dio come premessa per costruire una società dal volto umano: “Un nuovo ordine mondiale economico e politico non funziona se non c’è un rinnovamento spirituale, se non possiamo avvicinarci di nuovo a Dio e trovare Dio in mezzo a noi” (6 gennaio 2007). Negli anni della giovinezza dovette confrontarsi con un’ideologia violenta, in quelli della maturità con una “cultura positivistica e agnostica che si mostra sempre più intollerante verso il cristianesimo” (Ultime conversazioni, 217). Per non soccombere è necessario promuovere una più convinta coscienza di fede. Mi sembra questa la più grande eredità che ci ha lasciato Papa Benedetto.
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Brillante teologo negli anni ’60, il prof. Ratzinger divenne un significativo punto di riferimento. Le sue lezioni erano ricercate dai giovani che chiedevano e speravano di vedere una Chiesa capace di aprirsi al mondo e di accettare la sfida della storia. L’apertura al dialogo e il desiderato aggiornamento sono criteri importanti ma devono restare subordinati alla verità che la Chiesa ha ricevuto da Dio. È un tema importante, quello della verità, tant’è vero che lo troviamo chiaramente espresso nel motto episcopale: “Collaboratori della verità” (Cooperatores veritatis). Nell’autobiografia lo ha motivato come il desiderio di “rappresentare la continuità fra il mio compito precedente e il nuovo incarico: pur con tutte le differenze, si trattava e si tratta sempre della stessa cosa, seguire la verità, porsi al suo servizio”. Ratzinger è convito che nella nostra epoca, segnata da un inquietante relativismo, non c’è spazio per la verità, la verità è qualcosa che supera la capacità dell’uomo. E tuttavia egli fa notare che “tutto crolla, se non c’è la verità”.
Nel 1977, in tempi segnati da una gravissima crisi all’interno della Chiesa, Paolo VI lo scelse come vescovo e gli affidò la prestigiosa diocesi di Monaco. Ricevette la consacrazione episcopale il 28 maggio di quell’anno. In quell’occasione manifestò la convinzione che avrebbe guidato il suo nuovo ministero:
“Il vescovo non agisce in nome proprio, ma è un fiduciario di un altro, di Gesù Cristo e della Chiesa. Non è un manager, un capo per propria grazia, bensì l’incaricato di un altro di cui è garante. Dunque non può nemmeno cambiare opinione a piacimento e difendere ora questa ora quella causa, a seconda di come gli sembri conveniente. Non è qui per diffondere le sue idee private, ma è un inviato che deve trasmettere un messaggio più grande di lui. Egli verrà misurato su questa fedeltà: essa è il suo incarico”.
Una vita lunga e operosa. L’opera omnia in 16 grossi volumi – in corso di pubblicazione – testimonia il grande contributo teologico che Ratzinger ha donato alla Chiesa. E tuttavia, se volessimo racchiudere la sua vita in una suggestiva immagine, sceglierei la conchiglia che troviamo nel suo stemma episcopale e che lui stesso ha presentato sia come un segno del “nostro essere pellegrini” sia come memoria di quella leggenda di sant’Agostino che guardava con stupore e curiosità un bambino che giocando sulla spiaggia, munito di una conchiglia, cercava di riversare in una buca l’acqua del mare. In quel momento sentì una voce che gli diceva: “Tanto poco questa buca può contenere l’acqua del mare, quanto poco la tua ragione può afferrare il mistero di Dio”. Ratzinger ha scritto pagine luminose ma aveva coscienza di essere solo un balbuziente dinanzi al Mistero.
Una vita carica di responsabilità che, contro i suoi stessi desideri, lo ha costretto a stare sempre in prima fila. Una vita segnata dalla più grande umiltà e vissuta nella più totale obbedienza. Il suo segretario racconta che una volta, scherzando, gli disse: “Santo Padre lei ha fatto i conti senza l’oste”. E lui, con tutta serietà rispose: “Io non ho fatto nessun conto: ho accettato ciò che mi ha dato il Signore”. È così che ragionano i santi.
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