Siamo tutti con il fiato sospeso aspettando di sapere le sorti di Giulia Cecchetin e del fidanzato Filippo Turetta. Le ultime ricostruzioni purtroppo non fanno ben sperare. E mettono in luce in ogni caso una violenza, quella del fidanzato nei confronti della giovane laureanda. La storia si ripete. Ancora nel 2023 accadono episodi di maltrattamenti che la donna subisce ai danni del fidanzato o del marito. Dinamiche magistralmente raccontate da Paola Cortellesi nel film C’è ancora domani che sta avendo così tanto successo al cinema in queste settimane.
Al di là dei fatti di cronaca e del film che certamente racconta uno spaccato di realtà molto importante, vorrei offrire un punto di vista un po’ diverso. Il rischio è di non porsi le domande giuste. E quando non si parte da buone domande spesso si danno risposte errate o che non sono adeguate a interpretare il fenomeno. Bisognerebbe chiedersi onestamente: alla base della considerazione da parte dell’uomo che la donna sia “una cosa di sua proprietà” o del fatto che non riesca ad accogliere la sua capacità di emanciparsi da lui, fidanzato, marito o compagno che sia, cosa c’è? Dire che una donna lavora, si veste in modo provocante (o come vuole), esce con chi vuole, mantiene cioè i suoi spazi significa automaticamente dire che è felice?
Sono domande scomode ma che chiamano in causa fattori molto importanti del vivere comune. Non rinnego che il sistema patriarcale e maschilista abbia fatto soffrire molte donne ingiustamente ma non possiamo essere generalisti. Conosco donne, tra cui mia madre, che non hanno mai lavorato, hanno cresciuto felicemente i figli (almeno tre…), hanno sempre fatto almeno un mese di mare, non è mai pesato minimamente chiedere soldi per sé, anzi spesso amministravano abilmente i soldi del marito, preparavano pranzi elaborati e deliziosi non solo la domenica ed erano sempre belle preparate e profumate. E chiaramente godevano di tutto l’amore e la stima dei mariti.
Con questo cosa voglio dire? Che il problema della valorizzazione della donna nella società e nella famiglia non consiste o, meglio, non si esaurisce solo nella realizzazione professionale e nel conto in banca dedicato cercando di vestire i panni della superdonna capace di gestire tutto come un abile dirigente di azienda: figli perfetti, casa perfetta, lavoro perfetto, forma fisica perfetta, dress code perfetto. Certo che siamo in grado di fare tutto ma onestamente a quale prezzo? Se una certa cultura, cominciata molti decenni fa, continua a separare, ad allontanare sempre di più l’uomo dalla donna mettendoli quasi in contrapposizione invece che unirli, cosa ci aspettiamo?
Non si tratta di fare passi indietro. Si tratta di capire meglio il maschile ed il femminile e di vivere a partire da queste due identità, uguali sul piano dei diritti ma diverse sul piano antropologico. E questa diversità o, meglio, differenza, non è una cosa negativa. Al contrario è la vera ricchezza, è la bellezza della comunione che riconosce nell’altro ciò che manca per vivere in pienezza. Il rispetto, la stima non proviene certamente da un figlio di carta o dalla somma dello stipendio. Affonda le sue radici in un’educazione all’affettività, alle relazioni buone che devono trovare in famiglia il proprio humus. Dovremmo affrontare la questione con altri strumenti. È la strada più difficile, quella che contrasta con il sistema economico che separando l’uomo dalla donna può istituire vie di marketing dedicate all’uno e all’altra. Terreno fertile dove si annidano; gelosie, pornografia, sexy shop, illusioni di libertà. Se non riconosciamo il vero problema, sarà difficile cambiare rotta.
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