Mi ha fatto sorridere l’espressione usata da Papa Francesco durante l’intervista rilasciata al direttore del TG1 Gian Marco Chiocci andata in onda il 1° novembre su Rai Uno. Alla domanda sul celibato dei preti, il Papa ha detto di essere più preoccupato della “spiritualità da zitelli”. «Alcuni preti – ha detto – sono ‘zitelli’. Il prete deve essere padre, deve essere inserito in una comunità. Alle volte, questo mi preoccupa tanto, quando il prete guarda se stesso dentro e si fa una figura di sacro. Questo non mi piace perché perde il contatto».
Il sorriso ha lasciato lo spazio alla riflessione e alla preghiera. Proprio in questi giorni parlavo con un caro amico sacerdote della solitudine dei preti diocesani. Lui mi chiedeva: “Giovanna a chi mi devo rivolgere se ho qualche problema? Se sento forte la solitudine?”. È facile fornire risposte accademiche o spiritualistiche ma a volte ho l’impressione che la realtà sia lontana dai libri. È difficile intercettare una necessità e dare una risposta ecclesiale.
Nella frequentazione con tanti santi amici sacerdoti, mi accorgo che spesso il prete si percepisce in uno status di giovane single. Finché l’età lo permette (di solito fino a 50 anni a dire il vero…). Poi cade quasi sempre, se non è andato in crisi, in una sorta di “zitellaggio”, come si trovano molte persone che non vivono la dimensione sponsale della loro vocazione. Ha ragione il Papa. Si perde il contatto. Si perde l’esclusività del rapporto con Dio. Solo l’intima comunione con lo Sposo permette che quella vocazione diventi feconda e generativa. Solo il fuoco che arde nel continuo dialogo con Colui che fa nuove tutte le cose lo fa essere padre di una moltitudine di anime.
A volte è anche il contrario si perde il contatto con i fratelli pensando che la relazione con Dio sia tutto ciò di cui si ha bisogno. In questo modo non solo si diventa zitelli, facendo di se stessi la misura del sacro ma si sterilizza la vocazione. Come se i fratelli fossero degli orpelli. Sempre papa Francesco rispondendo agli studenti dei Collegi ecclesiastici romani: «Sentite bene questo: se voi non sapete accarezzare bene come padri e come fratelli, è possibile che il diavolo vi porti a pagare per accarezzare. State attenti. La capacità umana di essere padri. Con questo non si scherza: o tu sei padre, o sei patrigno. La capacità di essere padre è capacità di fecondità, è capacità di dare vita agli altri. La formazione integrale deve pensare a formare per la fecondità. Io non vi dico una cosa nuova, ma voi conoscete tanti, tanti sacerdoti che non sono padri, sono “funzionari del sacro”, come ha detto il Cardinale, sono impiegati di Dio – buoni, fanno il loro mestiere – ma non padri, non sanno dare vita, anzi, quanti fra noi sono zitelloni!, che tu quando li senti predicare o li senti parlare hai voglia di domandare: “Ma dimmi, cosa hai preso tu a colazione oggi? Caffelatte o aceto?”. Sono incapaci di generare vita negli altri, non sono fecondi».
Noi, comunità ecclesiale che ruolo abbiamo? Credo una grande responsabilità. Innanzitutto, quella di sostenere con una preghiera assidua la vocazione di questi fratelli ma esercitando anche quella reciprocità che ci rende amici. Come è bello sostenersi, avere a cuore la gioia e la felicità dell’altro. Far entrare quel prete nel circuito dell’amore familiare. Ogni giovedì sera mia madre prepara la cena per il nostro parroco. È un gesto piccolo ma a pranzo il giovedì se qualcuno dei suoi quattro figli è lì, la vede mettere con cura da parte le cose più buone e prelibate. Noi la prendiamo in giro perché le diciamo che ha il quinto figlio ma credo che ci sia una tenerezza semplice in questo gesto che è difficile declinare con le parole.
All’amico sacerdote risposi che è necessario crescere nell’amicizia tra noi e di non preoccuparsi perché io e mio marito ci saremmo sempre stati per lui. Non è solo una questione di vincere la solitudine. Piuttosto di aiutarsi a vivere intensamente la vocazione ricevuta. Ad essere insomma felici in pienezza del dono ricevuto generando vita in parole ed opere.
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