13 Ottobre 2023
Suicida a 12 anni: è l’ora di porci qualche domanda di senso
Un ragazzo di dodici anni si è suicidato due giorni fa, gettandosi dal balcone di casa al quarto piano, a Roma, nel quartiere Centocelle, sembrerebbe dopo un rimprovero subito da parte del padre in merito ad un brutto voto a scuola e ai compiti. Alcuni testimoni in strada lo hanno visto lanciarsi nel vuoto, un urlo poi il tonfo. Altri ragazzini hanno disgustosamente filmato tutto in diretta. La diffusione delle immagini è stata bloccata dai carabinieri ma per il giovane non c’è stato nulla da fare: è morto in ospedale. I genitori sono atterriti, il padre continua a ripetere che è colpa sua.
L’episodio si inserisce in un lungo elenco di casi di suicidi proprio nell’età dell’adolescenza. È doveroso porci qualche domanda. Il rispetto del dolore deve coniugarsi con una lettura della realtà che aiuti a interpretare questo malessere così diffuso. Che cosa ha portato questo ragazzino ad aprire una finestra e a lanciarsi nel vuoto? Non si può addossare tutta la colpa ad un intervento per quanto severo del padre. Certamente esistono molteplici cause ma tutte mettono in luce una verità che noi adulti facciamo finta di non vedere, anzi che contribuiamo a diffondersi: la fragilità e la vulnerabilità dei nostri figli.
Albert Camus, lo scrittore e filosofo francese vincitore del Nobel, nell’incipit di Il mito di Sisifo, scrive che: “Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia”. Nelle sue pagine egli accende i riflettori sul limite dell’umano ma nello stesso tempo, evocando la metafora del portiere in una partita di calcio – ruolo che amava ricoprire -, bisogna avere l’ansia di sorvegliare la propria area, di non lasciare la porta sguarnita, di parare ciò che ci si pone incessantemente davanti e di rilanciare. In una parola: di combattere. Senza mollare. E di esserci. Di essere-con. Di con-esserci. Oggi noi adulti ci siamo con? In fondo il padre di questo ragazzo è intervenuto, almeno da quello che sappiamo, con l’autorevolezza di un padre.
Cosa manca? Abbiamo giovani sempre più fragili. Eppure, rispetto al passato, i genitori sono molto più accudenti, molto più affettuosi, pronti a fare da cuscinetto a qualsiasi problema o difficoltà che un figlio deve affrontare. E allora? Come spiegare in questo clima, apparentemente più permissivo questo profondo disagio? Non sono certamente uno psicologo, parlo da madre e ho l’impressione che questa iper-protezione nei confronti dei figli ha generato un grande silenzio educativo che si traduce da un lato in un’incapacità di affrontare il fallimento e di cercare vie d’uscita davanti ad un problema, dall’altro nella grande assenza di adulti autorevoli cui rivolgersi. Giovani sempre più fragili e adulti sempre meno autorevoli.
Purtroppo, dobbiamo senza maschere riconoscere che noi adulti non abbiamo tempo per accorgerci del disagio dei giovani, che non abbiamo pazienza di costruire insieme a loro un percorso di crescita. Anche nelle nostre realtà ecclesiali giochiamo al risparmio, abbiamo paura di indicare vette alte e impegnative. Abbiamo confuso l’affetto con l’accondiscendenza dei capricci, abbiamo riempito di cose le loro giornate e le loro camerette dimenticando di consegnare negli zaini, insieme alla merenda, la capacità e gli strumenti per affrontare la vita e le difficoltà che ci sono fuori dalla porta di casa. E scusate, se apro una parentesi che forse non a tutti piacerà, ma per anni ho sentito sempre la solita filastrocca sul fatto che non è la quantità del tempo ma la qualità del tempo che passiamo con i nostri figli a determinare una buona relazione. Sì, è vero. Una madre e un padre possono essere anche iperpresenti ma distratti e anaffettivi ma intanto bisogna esserci, bisogna “starci”, e quella presenza deve essere di peso, determinante, orientativa. E i figli impareranno anche dagli insuccessi dei genitori il modo per affrontare i propri fallimenti.
Io una soluzione dal mio punto di vista ce l’ho. Ed è la necessità di consegnare ai figli nella bisaccia della vita il dono della fede. Questo è il segreto della felicità che presuppone chiaramente che anche gli adulti abbiano una fede matura e che la incarnino in scelte coraggiose. Santa Zelia Guerin Martin, mamma di santa Teresa di Gesù Bambino, che di educazione ha molto da dire ai genitori di oggi, lavorava più di dieci ore al giorno e tuttavia non ha mai fatto mancare alle sue figlie non solo la sua presenza ma un’educazione capace di orientare al bene, di fortificare temperamento e carattere, di vivere le difficoltà come un’opportunità di crescita tanto che la sua opera educativa ha avuto un’eco straordinaria nel cuore delle figlie anche dopo la sua morte prematura.
Non è semplice. Io per prima mi rendo conto di quanto sia duro il lavoro di educazione, di quanta profonda conversione su noi stessi dobbiamo fare, di quanto amore, di quanto impegno, di quanta presenza si necessita. Ma il grido silenzioso di questo ragazzino non può restare inascoltato, deve essere raccolto e mentre con rispetto pensiamo alla disperazione dei suoi genitori e preghiamo perché Dio possa consolarli nel loro immenso dolore, chiediamoci qual è la nostra parte in questa storia.
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