I primi anni ’90 sono stati caratterizzati dalle notizie che arrivavano a raffica dalla Sicilia. I fatti di sangue legati a Cosa nostra, l’uccisione del giovane magistrato Livatino e poi dei giudici Falcone e Borsellino erano al centro delle nostre discussioni al Liceo. Erano gli anni delle passioni e degli ideali e un senso di ribellione e una sete di giustizia serpeggiava nelle parole e nelle relazioni emotive. Guardavo invece gli adulti impietriti. Il mio professore di filosofia scuoteva la testa come per dire “non riusciremo mai a debellare la mafia”.
E invece Cosa nostra non aveva fatto i conti con la fede di questi uomini. La testimonianza del giudice Rosario Livatino, del quale papa Francesco ha riconosciuto il martirio, fa luce sulla vita di un uomo che profuma di Dio. Il giovane magistrato Rosario è stato ucciso in odium fidei dalla mafia sulla strada che conduce da Canicattì ad Agrigento nel 1990. Aveva appena 38 anni. Si era formato nelle file dell’Azione Cattolica. Divenuto giudice della sezione penale, prima di recarsi a lavoro presso la Procura di Agrigento, sostava sempre nella vicina chiesa di San Giuseppe per un tempo di adorazione eucaristica.
Nella sua città in quegli anni c’era una vera e propria “guerra” di mafia, che vedeva contrapposti i clan emergenti, gli Stiddari, contro Cosa Nostra, il cui padrino era Giuseppe Di Caro, che abitava nello stesso condominio di Livatino. Era stato proprio De Caro a dare a Livatino il soprannome di “santocchio”, in spregio alla sua fede e al suo rigore morale. Il giovane magistrato fu più volte minacciato e cercarono di corromperlo ma egli restò fermo e rigoroso nell’esercizio delle sue funzioni.
Il mandante dell’omicidio confessò che la loro intenzione era di assassinare il giudice proprio all’uscita della chiesa di san Giuseppe dove si recava ogni giorno ma era troppo pericoloso così il 21 settembre 1990, il Servo di Dio venne ucciso in un agguato, sulla Strada Statale 640 mentre viaggiava da solo, in automobile, per recarsi in Tribunale. Per non esporre alla morte altre persone «lasciando vedove e orfani», rifiutò la scorta e molto probabilmente fu questa anche la motivazione secondo cui scelse di non sposarsi. Tra le sue agende personali compare sistematicamente la sigla S.T.D. che sta per “Sub tutela Dei”.
Nel su pensiero troviamo molto interessante il rapporto tra fede e diritto. In una conferenza tenuta a Canicattì nell’aprile 1986 ad un gruppo culturale cristiano, Livatino osservava come Gesù affermi che “la giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore, amore verso il prossimo e verso Dio”. E aggiungeva: “Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata”.
Un esempio per tanti. Soprattutto per quanti, anche tra i cristiani che spesso separano la fede dalla professione e sono pronti a scendere a compromessi pur di raggiungere degli obiettivi. Un esempio per i giovani che hanno messo nel cassetto sogni e grandi ideali accontentandosi di volare basso senza slanci e senza entusiasmi. Uomini come Livatino invece ci permettono ancora di sognare. Altro che santocchio.
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