Le app fanno la fatica al posto degli studenti? Nuove tecnologie e futuro della scuola
11 Luglio 2023
Mia figlia stava facendo i compiti. Le serviva un dato e si è servita di un’applicazione. Ha ottenuto la risposta. Fatica zero. Tempo infinitesimale. Risultato eccellente. Quale merito ne ha avuto, però? Di fronte a queste novità tecnologiche ci interroghiamo sul futuro della scuola: come sta cambiando il modo di apprendere? È salutare per i nostri figli? Quali i pro, quali i contro?
Ormai è solo questione di tempo. Non molto. Il passaggio epocale è dietro l’angolo. Il prossimo angolo. Non uno dei prossimi. Me lo ha mostrato la mia secondogenita alle prese con l’esame conclusivo del Primo Ciclo. Stava lavorando su Pirandello e cercava una citazione. Mi viene vicino e mi dice di aver chiesto a ChatGPT qualche citazione dell’autore siciliano che fosse affine al suo tema: l’imperfezione. Io non le avevo spiegato l’esistenza di quel mezzo e nemmeno a scuola ne hanno parlato. Lei di sicuro non ha letto i miei post sul tema. Eppure, con tutta la naturalezza di questo mondo, ha aperto la chat, ha chiesto, ha ottenuto la risposta ed è rimasta anche colpita dal fatto che questa applicazione le riportava una frase la cui attribuzione non è da ritenere certa. Fatica zero. Tempo infinitesimale. Risultato eccellente. Quale merito ne ha avuto? Quello di andare a cercare nel posto giusto. Tutto qui? Non credo. Da adesso in poi, mi chiedo, scrivere sarà una questione di intelligenza artificiale? Saper produrre un testo non sarà più una competenza necessaria? Quale accezione avrà l’aggettivo “originale”? Potrei continuare all’infinito. Ciò che mi preme affrontare qui, tuttavia, è cercare di capire cosa debba insegnare la scuola da settembre in poi. Assegnare i compiti avrà molto meno senso di quanto ne abbia ora. Ma anche produrre un tema: se ho chi lo scrive meglio di me con così poco dispendio di energia, perché dovrei cimentarmi? Solo per soddisfazione personale? Sono pochissimi coloro che vengono mossi da tale aspirazione. Anche in questa situazione si potrebbe continuare con una lunga teoria di questioni più o meno fondanti. Il nocciolo intorno al quale stiamo girando, inutile nasconderselo, è il seguente: a cosa servirà la scuola? E il titolo che si acquisisce dopo aver superato un esame? Mi sembra importante chiederselo e, probabilmente, siamo già in ritardo. Si consideri che la maggioranza dei docenti è ancora legata al “programma” da svolgere. La notizia nuova è che questo è già stato svolto e si trova in rete. E allora, come si chiedeva Paola Mastrocòla qualche anno fa in un libro dal sapore agrodolce, “togliamo il disturbo”? Eliminiamo la scuola? Sento già i miei alunni urlare di gioia! Godono quando dico loro che sono contrario ai voti. Figurarsi di fronte a quest’affermazione! No. Non va eliminata la scuola. Piuttosto, i numerosi casi di cronaca degli ultimi giorni suggeriscono che essa andrebbe reindirizzata nelle modalità e nelle finalità.
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La recente affermazione del Ministro Valditar, a secondo la quale è maturo il tempo di prevedere lo psicologo a scuola è tardiva e risponde solo parzialmente alla questione che sto ponendo. Lo psicologo a scuola sposta leggermente il focus di quest’istituzione: dall’istruzione come somma di contenuti ad un’idea di formazione per così dire da declinare verso la costruzione dell’umano. Mi viene in mente un ormai antico, ma non per questo meno attuale, film uscito nel lontano 1999 (lo scorso millennio, è il caso di dirlo!), basato sull’omonimo racconto di Isaac Asimov, già autore della trilogia Io Robot, di cui tanto si parla in questi tempi di Intelligenza artificiale. Il film si intitola L’uomo bicentenario ed è, in poche parole, la storia di un robot dalle sembianze sempre più umane, costruito per servire, ma che, col passare del tempo, comincia a desiderare la vita alla maniera umana. In poco tempo scopre di avere delle sensazioni, come la paura, la tristezza per le brutte cose e uno spiccato senso dell’umorismo. Un poco alla volta Andrew, il protagonista robot, impara a provare sentimenti, si innamora, prova gelosia. Vuole essere riconosciuto a tutti gli effetti come essere umano, ma ciò non è possibile perché è immortale. L’amore per una ragazza, incredibilmente, ma profeticamente, lo porta a chiedere che gli venga installato un dispositivo che lo renda mortale. E quindi umano. La battuta finale è iconica: “Uno è lieto di poter servire”. Ha scoperto che ciò che ha fatto per tutta la durata della sua esistenza può essere fatto come atto volontario e ciò lo rende meravigliosamente umano. Ecco, magari non in queste condizioni, non ci siamo ancora arrivati, ma la scuola, me ne convinco sempre più, deve portare la persona a riconoscersi sempre più nei propri limiti e nelle proprie caratteristiche interamente umanizzanti. Le conoscenze, il sapere che ha dato la scuola fino ad ora, vanno vieppiù sostituite con esperienze umanizzanti. La cronaca ce lo chiede in maniera sempre più impellente. Ma non è una questione nuova. Circa un centinaio di anni fa, il teologo Romano Guardini, in maniera assai profetica, riflettendo sul ruolo della tecnologia sulla vita umana, si chiedeva “Come l’uomo oggi può umanizzare il suo avvenire e non esserne sopraffatto?” E poi, ancora: “Cosa accadrà quando ci troveremo davanti al prevalere degli imperativi della tecnica? (…) In un tale sistema, la vita può rimanere vivente?”
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