6 Luglio 2023
“Io ci sono”: è la cosa più bella che si possa dire ad un’altra persona
«Davanti alla morte di questa nostra sorella, solare e bella, come prima cosa ci dobbiamo fermare; dobbiamo togliere i sandali delle nostre tante certezze e avere l’onestà di compiere un sano e sincero discernimento. La morte di Michelle ci pone delle domande come Chiesa e come Società Civile. Dove stiamo andando? Siamo coscienti o no che la nostra è una crisi di civiltà? Cosa stiamo offrendo ai nostri giovani? Ce la sentiamo ancora di dire che stiamo costruendo un futuro per loro, oppure siamo diventati tutti complici di progetti di morte?». A parlare è il vescovo Baldo Reina, ausiliare del settore Ovest della diocesi di Roma, durante il funerale di Michelle Causo, la 17enne uccisa a coltellate lo scorso 28 giugno.
La giustizia sta facendo il suo corso, elementi emergono giorno per giorno sull’uso di droghe e sostanze stupefacenti. Ma le domande del vescovo interpellano tutti. La direzione verso cui camminano i nostri giovani è preoccupante. E noi adulti ci limitiamo a contenerla senza avere la capacità di incidere profondamente sul loro percorso di crescita. Siamo come paralizzati, vittime di una realtà che forse avvisiamo essere più grande di noi. Complici di progetti di morte come ha detto il vescovo. È una definizione che dovrebbe farci tremare i polsi, tutti. Genitori, chiesa, scuola, comunità civile. Eppure ho l’impressione che aleggi una certa rassegnazione di massa a parte qualche spavaldo condottiero che ha il coraggio di uscire fuori dal coro e di fare la sua parte.
Fare la nostra parte come adulti. A noi non è concesso certamente cambiare la realtà ma possiamo fare tanto, ognuno nel suo piccolo, per aiutare i giovani ad affrontarla e a viverla. Come? A cominciare da noi, dal nostro modo di vivere, dalla scala dei valori che determinano le nostre scelte. Se un figlio vede che i genitori mettono i soldi al primo posto, o la ricerca dell’apparenza, della cura spasmodica del proprio corpo come priorità assoluta, potranno anche assicurare al figlio tutto l’affetto, la cura in ogni cosa materiale, gli strumenti per studiare e per realizzarsi nella professione ma non avranno trasmesso a quel figlio ciò che conta davvero per stare al mondo.
E cosa conta? Il rispetto di se stessi, del proprio corpo e degli altri, la cura vicendevole, il sacrificio, sperimentare anche la durezza e l’asprezza delle difficoltà senza intervenire subito al posto del figlio ma guardando da lontano, aspettando e pregando che quel dolore, quella difficoltà porti frutto e lo faccia diventare un uomo, una donna migliore. Togliere gli ostacoli dl percorso di crescita dei nostri figli non significa amarli di più ma renderli inabili ad affrontare l’esistenza come un’esperienza di vita. Ciò che conta davvero è trasmettere ai figli la certezza di una presenza amorevole e costante. “Io ci sono”: è la cosa più bella che si possa dire ad un’altra persona. Molto di più ad un figlio che, in forza di quell’amore, è capace di dare e di desiderare il meglio per se e per gli altri.
La morte di Michelle non va derubricata come l’ennesima tragedia consumatasi in un ambiente che non dà spazi di salvezza. Lì dove la famiglia non può e non sa farsi condottiero, è necessario che intervengono altri, la scuola, la parrocchia, il mondo dello sport. Riprendere il timone è necessario. Se noi adulti non ne siamo consapevoli, i nostri figli rischiano davvero grosso.
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