CORRISPONDENZA FAMILIARE
La morte per gli sposi non è l’ultima parola
24 Aprile 2023
Il tempo della vedovanza ha bisogno di parole di vita per essere abitato. Chi si preoccupa degli sposi vedovi? Chi offre loro il nutrimento necessario? In che modo la fede può illuminare questo tempo? Proviamo a dare qualche orientamento…
Nei primi giorni del tempo pasquale ho vissuto un ritiro residenziale con un gruppo di persone vedove, uomini e donne. È una bella consuetudine che mi accompagna da diversi anni e ogni volta mi sollecita a rileggere alcune pagine bibliche nella luce di quella particolare stagione della vita coniugale che è la vedovanza. Una stagione che, contrariamente a quello che pensano in tanti, non interrompe la sinfonia nuziale ma è solo una tappa del cammino coniugale, un passaggio necessario che prepara il giorno in cui, nuovamente riuniti nella beata eternità, gli sposi potranno gustare una nuova e definitiva comunione.
Quando contempla la beata eternità, Teresa di Lisieux vede i genitori finalmente uniti nella luce di Dio. Lo ricorda in una poesia che scrive poco dopo la morte del papà: “Ricongiunto tu sei lassù alla cara Mamma, / che nella Patria Santa t’ha preceduto. / Ora tutt’e due / nel Ciel regnate: / vegliate su noi!” (Preghiera della figlia di un santo). In queste parole non solo intravediamo una ritrovata comunione ma anche una nuova forma di genitorialità. La morte non interrompe ma intensifica il filo della vita, anzi dona una nuova e misteriosa fecondità.
In quanto battezzati, le persone vedove fanno parte della comunità ecclesiale e ricevono il cibo comune a tutti. Ma hanno anche bisogno di ricevere quel particolare nutrimento che più e meglio risponde alla loro condizione. Dobbiamo purtroppo fare i conti con una mentalità assai diffusa che presenta la vedovanza solo come una privazione. Sicuramente lo è ma non è giusto fermarsi a considerare solo l’assenza del coniuge. È compito della Chiesa aiutare quelli che noi chiamiamo sposi vedovi – mi sembra l’appellativo più adeguato – a vivere la vedovanza come una nuova veste e una nuova identità.
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L’assenza del coniuge è certamente causa di una grande sofferenza, tanto più acuta quanto più intimo era il legame che gli sposi hanno vissuto. Quando viene meno la persona, scelta come compagno di viaggio per affrontare l’avventura della vita, tutto si offusca. Come un’improvvisa eclissi. È inevitabile che sia così. La morte appare come un ladro che viene a rubare quello che abbiamo di più caro. Il dolore ha il suo spazio, non può essere soffocato né tantomeno messo in un angolo ma non deve neppure essere posto sul trono. Fermarsi alla privazione significa restare chiusi nel passato, aggrapparsi ai ricordi, vivere con il collo torto. È una risposta sbagliata. La vedovanza chiede di rileggere la vita, anzi costringe a riflettere sul senso della vita e chiede di aprirsi con umiltà al futuro che Dio desidera tracciare. La vedovanza permette di scoprire altri aspetti e di esplorare altri sentieri che durante gli anni del matrimonio non sono stati considerati e di assumere nuovi ministeri nella vita ecclesiale. Non dimentichiamo la parola del profeta: “Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa” (Isaia 43,19).
La pagina di Emmaus, che ieri abbiamo nuovamente proclamato e meditato nella liturgia, offre non pochi spunti per rileggere l’esperienza della vedovanza. I due discepoli, che camminano verso Emmaus, sono delusi e smarriti. La morte del Maestro segna la fine di ogni speranza. È la stessa sensazione che sperimentano tanti sposi vedovi. La morte del coniuge sembra porre la parola fine, l’amore è solo un ricordo e i progetti accarezzati – anche quelli di godersi una tranquilla stagione e una meritata pensione – diventano improvvisamente polvere. Tutto sembra finito, sì la vita continua ma ai loro occhi appare come un pellegrinaggio non privo di tristezza.
Nella vicenda di Emmaus c’è un passaggio molto significativo. Ricordando al Viandante i fatti accaduti, i discepoli parlano delle donne che quel mattino sono andate al sepolcro: “non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo” (Luca 24, 23). Stando al loro racconto, Gesù aveva sciolto le catene della morte. Si tratta ovviamente di un annuncio sorprendente e imprevedibile. Una parola che appare così lontana dall’esperienza quotidiana da non riuscire a far breccia nei cuori dei discepoli, pensano che sia solo un’illusione. La paura di essere nuovamente delusi, soffoca la scintilla della speranza. Il Cielo si chiude. I discepoli se ne vanno, tornano a casa. Ma Gesù li raggiunge e dona loro una Parola che apre orizzonti imprevedibili. Quell’incontro segna l’inizio di una nuova avventura.
Questa pagina biblica parla a tutti i battezzati ma ha qualcosa da dire proprio agli sposi vedovi. L’esperienza vissuta dai discepoli, il passaggio dalla tristezza rassegnata della morte all’annuncio gioioso della vita, mi pare un’immagine eloquente della vedovanza riletta e vissuta nella fede. La croce diventa un albero fecondo di vita. La fede non elimina il dolore ma dona di viverlo nella luce di Dio come annuncio della vita che non muore.
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