Si potrebbe fare molto di più. I dati che emergono dall’Osservatorio nazionale per le persone con disabilità ci dicono che sono stati stanziati fondi, progetti e collaborazioni con le associazioni delle persone con disabilità per favorire la loro integrazione sociale. Ci sono ancora molti casi di discriminazione, di bullismo, ma potremmo dire senza ombra di dubbio che forse mai come in questo tempo esiste un’attenzione culturale e normativa verso le persone con disabilità con una serie di interventi a più livelli: scolastico, strutturale, nel mondo del lavoro.
Il problema è che se questa persona con disabilità si trova nel corpo della donna, della madre, scatta per lei un meccanismo totalmente capovolto. Nessun sussidio statale, nessun abbattimento delle barriere architettoniche, nessun supporto sanitario. Per lui o per lei c’è solo un certificato di morte. Una contraddizione così palese, grande quanto una montagna eppure del tutto ignorata dalla stragrande maggioranza della società. Tanto che i media sono pronti a fare la loro parte – e aggiungo giustamente – per amplificare casi di ingiustizia, di discriminazione o atti di bullismo nei confronti di queste persone ma non una sola parola per quei bambini disabili che stanno crescendo nel ventre della mamma.
Alcuni anni fa, a Firenze, ci fu un caso al riguardo molto emblematico. Una coppia che aveva avuto due gemelli decise di non riconoscere quello nato con la sindrome di Down. I giornali si scatenarono contro quella donna accusandola di essere una madre insensibile perché si era portata a casa solo il figlio sano abbandonando l’altro. Ovviamente la soluzione sottointesa era che doveva essere eliminato prima con l’aborto eugenetico. In quel caso nessuno avrebbe avuto qualcosa da ridire.
Di qualche anno fa anche un altro caso. Una coppia australiana pagò una ventunenne thailandese per diventare “mamma in affitto”. La donna, Pattharamon Janbua, partorì due gemelli, uno dei quali affetto dalla sindrome di Down. La coppia, che aveva pagato 12.000 euro per la gravidanza surrogata, decise di riportare con sé in Australia solo la bambina sana, lasciando in Thailandia il gemello portatore di handicap, Gammy. Chiaramente la motivazione era che loro avevano chiesto alla donna di abortire ma Janbua si era rifiutata per motivi religiosi. Ebbene, lasciando stare tutto il discorso sull’utero in affitto, si scatenò un caso mediatico e una raccolta fondi per sostenere quella mamma.
Qual è dunque il confine? Uno strato di epidermide? La vista? Sentire il pianto del neonato? Non c’è teoria scientifica né etica che sta in piedi. Solo l’ostinata e assurda quanto contraddittoria idea di avere un potere inesistente sulla vita di un altro che ha l’unica colpa di stare in un posto, l’utero della mamma, che dovrebbe essere il più sicuro al mondo ma che abbiamo trasformato nello spazio più pericoloso e rischioso per l’essere umano.
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