IL SENSO DEL DOLORE

“La mia malattia deve avere un senso, vediamo che frutti darà”: la testimonianza di una paziente

ospedale

Di storie di uomini e donne malati ne ricordo molte, dei tempi in cui ero tirocinante in ospedale; ma quelle che restano marchiate a fuoco in memoria sono di due tipi. Ricordo bene la malattia di chi subiva quell’evento come una condanna ingiusta. E ricordo bene gli occhi di chi viveva malattie anche tremende, con una serenità che disarmava chiunque. Tra tutte c’era Daniela… 

Esattamente nella giornata mondiale del malato, che cade ogni 11 febbraio dal 1992 per volontà di Giovanni Paolo II, mi arriva un messaggio.

Mi scrive una madre, immensa nella sua dignità e nel suo dolore, chiedendo anzi supplicando di pregare e far pregare per sua figlia.

Racconta che a questa giovane donna di 26 anni, sposa novella da appena cinque mesi, hanno appena diagnosticato un tumore. Un tumore di quelli infidi, che piomba di botto in una giovane vita, e al suo arrivo si scopre essere già metastatico.

Lo dico senza giri di parole: ho pianto.

Da mamma, ho letto fin nelle ossa il messaggio di questo cuore materno afflitto, che mi raccontava la bellezza pura e rara di una figlia che si spende da anni in oratorio e altrove per i ragazzi in difficoltà. Ho sentito l’angoscia di una sposa e di uno sposo che nel pieno germogliare del loro matrimonio vedono cadersi addosso una pioggia di lava liquida che sembra non lasciare scampo.
Sono andata a cercare il profilo social di questa ragazza. Non per farmi i fatti suoi, ma per capire meglio, per farmi una ragione, forse sperando in cuor mio che fosse una storia inventata. O per vederla in volto, e volerle meglio bene pregando per qualcuno che si conosce almeno un po’.
E ho visto quello che in realtà già sapevo. Che è tutto vero. Non solo che lei esiste, che esiste il suo giovane marito e le foto del loro matrimonio, ma che sono pure belli. Luminosi e belli. E che lei ispira un amore gentile, che mette voglia di amicizia e di abbassare le difese e avvicinarla senza troppi formalismi.

Ho avuto la tentazione forte di dirle “chiamami”, di entrare nella sua vicenda con il bisogno pressante nel cuore di consolare, di ascoltare, di raccogliere questa storia dalla sua stessa bocca, ma mi sono trattenuta. Perché la malattia è un terreno sacro dove non possiamo concederci l’egoismo di entrare a gamba tesa pensando a cosa fare per l’altro, ma bisogna attenersi a ciò che l’altro di fatto chiede, e nel frattempo lasciare aperte tutte le porte vere e spirituali per essere pronti ad accogliere e a dare.

Questa sposa insieme a tutta la sua famiglia chiede preghiere. Incessanti se possibile.

La sua storia mi ricorda moltissimo quella di altre giovani donne conosciute in un tempo in cui avevo a che fare quotidianamente con la malattia, quando da tirocinante affiancavo i medici in ambulatorio. 

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Ero lì per imparare un mestiere, intanto ascoltavo e imparavo un’altra cosa che non avevo trovato scritta nei libri, ovvero le mille sfumature della sofferenza, quando la malattia si trasferisce in pianta stabile nelle vite umane.

Di storie e di volti di uomini e donne malati ne ricordo molte. Ma quelle che restano marchiate a fuoco in memoria sono di due tipi.

Ricordo bene la malattia di chi subiva quell’evento come una condanna ingiusta, ricordo bene il terrore e il bisogno fisico di aggrapparsi ad una speranza per respirare fuori dall’angoscia soffocante.
E ricordo bene gli occhi di chi viveva malattie anche tremende, violente, con una serenità che disarmava chiunque.

Tra tutte c’era Daniela, che aveva avuto l’asportazione dei seni a 25 anni. Una malattia ereditaria, che avevano portato ad un intervento, poi le chemio, la radio. Tutta la sua storia me l’aveva raccontata così, semplicemente e di getto, mentre camminava al mio fianco durante il trasferimento da un reparto ad un altro. Io ero lì per reggere dei fogli e farle strada, e invece mi sono ritrovata a entrare in un mistero di cui non mi sapevo spiegare il senso.

Quella ragazza all’epoca mia coetanea, bella ma provata nel fisico, con gli occhi grandi e accesi di vita, che mi parlava in quel modo così semplice di cose più grandi di lei, non aveva paura. Ma proprio zero. Paura di morire, di non poter avere più figli a causa degli effetti avversi dei farmaci, di ingrassare venti chili ad ogni ciclo di terapia, di non poter usare il braccio invaso dall’edema dall’operazione in poi. Nulla. Ne parlava con una serenità e una freschezza che non lasciava dubbi. Aveva addomesticato il dolore.

Se l’era fatto amico.

Non era pazza, aveva bene in mente il peso della sua malattia e i suoi limiti invalidanti. Ma diceva che andava bene, che aveva capito, che aveva accettato.

Ma come. Ma perché? Capito cosa?

Glielo chiesi, in modo più formale, e mi spiegò che lei in Dio non ci credeva ma aveva capito che forse Dio o chi per lui credeva in lei.

Di pensare a Dio come ad un Padre giusto che vuole il bene dei propri figli non ci pensava proprio. Anzi col cielo stava parecchio incavolata. Ma se qualcuno dall’alto c’era, e le aveva mandato addosso quella prova, tanto valeva dimostrare che le forze per sostenerla non le mancavano. Più che altro era curiosa di capire dove avrebbe portato quel viaggio, cosa le avrebbe fatto scoprire, quali frutti avrebbe portato a sé e agli altri.

Insomma, aveva capito che avere le risposte alle mille domande sul senso della vita e del dolore non era importante, ma piuttosto per lei era importante starci, in quel dolore. In piedi, spiritualmente parlando. Affiancata dalla sua famiglia, perno d’amore irrinunciabile.

Aveva fatto suo il “fiat”. Una gigante di fede sotto mentite spoglie.

Ogni croce, qualunque sia il peso, temo abbia un senso che sfugge alle spiegazioni umane. Sicuramente sfugge alle spiegazioni della sottoscritta che non pretende di capirne molto.
Posso solo lasciare qui due speranze.

Spero che ciascuno di noi si senta chiamato a condividere le croci del prossimo, perché non c’è dolore peggiore di quello sorretto nella solitudine.

Spero che chi quella croce ce l’ha sulle spalle trovi la sua potenza immensa tutta lì, in quello stare, esempio di vita vera che vacilla ma non molla sotto il peso del dolore, in un mondo che rigetta le croci come sofferenza inutile e ignobile.

A me il fatto che un Re duemila anni fa non abbia rinunciato alla sua corona nonostante fosse in croce mi fa pensare che di potere e di potenti, qui sulla terra, non ci abbiamo ancora capito poi molto.




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Lisa Zuccarini

Lisa Zuccarini, classe '83, è una moglie e mamma che ha studiato medicina per poi capire alla fine di essere fatta per la parannanza più che per il camice. Vive col marito e i loro due bambini. Dal 2021 ha scoperto che scrivere le piace, al punto da pubblicare un libro edito da Berica Editrice, "Doc a chi?!", dove racconta la sua vita temeraria di mamma h24 e spiega che dire sì alla vocazione alla famiglia nel ventunesimo secolo si può, ed è anche molto bello.

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