Una poesia per meditare sul tempo di Natale appena passato
7 Gennaio 2023
La poesia che vi propongo è tratta dai Canti dell’infermità (1957) di Clemente Rebora, che si convertì in età adulta e divenne sacerdote rosminiano. In questa lirica la nascita di Cristo viene connessa alla sua Passione. È un modo per riflettere sul tempo di Natale appena trascorso…
Oh Comunion vera e sol beata,
se con te, Cristo, sono crocifisso
quando nell’Ostia Santa m’inabisso!
Intollerabil vivere del mondo
5 a bene stare senza l’Ognibene!
Penitenza scansar, che penitenza!
Se ancor quaggiù mi vuoi, un giorno e un giorno,
con la tua Passion che vince il male,
Gesù Signore, dammi il tuo Natale
10 di fuoco interno nell’umano gelo,
tutta una pena in celestiale pace
che fa salva la gente e innamorata
del Cielo se nel cuore pur le parla.
O Croce o Croce o Croce tutta intera,
15 nel tuo abbraccio a trionfar di Circe,
sola sei buona e bella, e come vera!
Abbraccio della Madre, ove già vince
nel suo Figlio lo strazio che l’avvince.
(Clemente Rebora, Avvicinandosi il Natale)
Finite le vacanze di Natale, e trascorsa anche l’Epifania che tutte le feste porta via, vale la pena tornare a riflettere sull’evento centrale di queste feste, il Natale del Signore. Siamo ormai assuefatti alla commercializzazione consumistica di questo grande evento cristiano, ma tutto sommato è inutile scandalizzarsi: un pizzico di consumismo “povero”, con regali ben scelti in funzione del carattere e dei gusti del destinatario, è un modo di essere vicini alla letizia della nascita di Cristo. Dunque, specie di questi tempi così complicati e luttuosi per via delle guerre, ben venga un po’ di consolazione anche materiale. L’importante è mantenere una misura cristiana ed evitare l’ostentazione.
Ma il Natale vero è ben altro. La poesia che vi propongo oggi – di cui ho parlato anche nel numero natalizio della rivista rosminiana “Speranze” – è tratta dai Canti dell’infermità (1957) di Clemente Rebora, che si convertì in età adulta e divenne sacerdote rosminiano. In questa lirica la nascita di Cristo viene connessa alla sua Passione (con la rima baciata crocifisso:m’inabisso che subito ci sprofonda nel bruciante misticismo del poeta). Dunque, la «Comunion vera» e veramente beata è resa possibile solo dalla Croce da cui, nell’economia della redenzione cristiana, nasce tutto.
Leggi anche: Papa Francesco e il Natale: “Penso ai bambini divorati dalle guerre” (puntofamiglia.net)
Tra i versi 4 e 6 troviamo una variazione sul tema: è intollerabile, ci dice Rebora, pretendere di «bene stare senza l’Ognibene» e – dogma della società secolarizzata – scansando ogni penitenza. Come a dire che per l’anima, e magari anche per il corpo, è tossica la rinuncia a ogni sacrificio. Sono versi in cui compaiono ripetizioni e giochi di parole degni della retorica semplice di uno Jacopone da Todi; e come quella capaci di esprimere un misticismo ansioso di Cielo.
Subito dopo si precisa, dal verso 7, il cuore teologico della lirica. Se, dice Rebora, è necessario trascorrere ancora su questa terra «un giorno e un giorno», ecco la richiesta quasi perentoria a Dio, nel nome stesso della sua Passione: «dammi il tuo Natale / di fuoco interno nell’umano gelo». Come si vede, il forte stacco (tecnicamente un enjambement) tra i due versi evidenzia l’opposizione tra fuoco e gelo, che a giudizio di uno studioso intelligente di Rebora come Matteo Munaretto riprende il Vangelo di Luca 12, 49: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso». Sono i veri effetti del Natale moderno, nella sua drammaticità e insieme nella sua dolcezza: «tutta una pena in celestiale pace». E va notato che la gente si salva solo se il Cielo «nel cuore pur le parla». La salvezza è dunque nell’intimo colloquio con Dio ovvero, agostinianamente, «in interiore homine».
Segue una nuova forte opposizione. La triplice invocazione alla Croce (poi definita «buona e bella e vera», vale a dire i fondamenti del cristianesimo) si contrappone a Circe, simbolo del mondo ingannevole che viene appunto annientato dalla Croce.
Infine, al verso 15 la parola abbraccio anticipa la conclusione mariana: l’«abbraccio della Madre» è quello tipico dell’iconografia della Pietà, come suggerisce ancora Munaretto. Ha dunque valore attivo: è un abbraccio che interviene benignamente sulle cose e le cambia. In questo caso Maria, vincendo nel riscatto del Figlio «lo strazio che l’avvince», riconduce il Natale al mistero della Pasqua.
Lo stesso Rebora ci aveva proposto in uno dei suoi Scritti spirituali una riflessione in prosa che conferma l’assunto essenziale della poesia. Vale la pena di riprodurla qui, a completamento del nostro discorso:
La mancanza del senso unitario delle Verità di Fede ci fa perdere il più dell’insegnamento vitale che la S. Chiesa si ripromette, presentandoci i Misteri principali dell’Anno liturgico; ma in nessun caso il danno della mutilazione è sì rilevante e sfigurante come nei riferimenti a questa Festa essenziale e tanto universalmente sentita. Il Natale ne soffre alla radice, il sentirlo fine a sé, con prevalenza di motivi sentimentali della famiglia e della beneficenza; mentre invece la prima Venuta di Cristo riceve tutto il suo mordente dal secondo e conclusivo suo ritorno nella maestà della gloria, giudicante appunto l’uso fatto di questo suo Avvento, che è dolcissima poesia, e insieme, per i nostri peccati, pieno patimento fino alla Croce.
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