“Cooperatores Veritatis”, collaboratore della verità: Joseph Ratzinger aveva scelto questo motto da vescovo e lo ha riconfermato da Papa. Una sintesi efficace di una vita tutta spesa al servizio della fede, alla ricerca di quella verità che per lui e per noi tutti ha un solo nome: Gesù Cristo.
In queste ore che seguono la sua nascita al Cielo tante voci si rincorrono e si scontrano. Si ripercorrono le scelte più importanti o meglio più eclatanti da un punto di vista mediatico, qualche giornalista tenta un confronto con papa Francesco, o con san Giovanni Paolo II dimenticando la loro lunga collaborazione. E si tirano fuori dal cilindro scandali, silenzi, rigidità. Ma d’altronde, per usare le sue parole: “Se un papa ricevesse solo gli applausi dovrebbe chiedersi se non stia facendo qualcosa di sbagliato”.
Io invece non posso fare a meno di ripensare alle immagini di alcuni anni fa. Era l’11 febbraio del 2013, festa della Vergine di Lourdes, papa Benedetto era stato eletto pontefice da poco più di 7 anni, e al termine di un ‘normale’ Concistoro, annunciò le sue dimissioni lasciando il mondo sbigottito. Anche io fui pervasa da un brivido alla schiena. Cosa sarebbe accaduto? E soprattutto quanta fede c’era in quella decisione? Il “semplice ed umile lavoratore nella vigna del Signore” – come si era definito il 19 aprile del 2005 affacciandosi per la prima volta dalla loggia di san Pietro da Papa – compiva il suo atto di umiltà. Le lacrime scendevano copiose quando con gli occhi sbarrati seguivo l’elicottero che da Città del Vaticano lo portava a Castelgandolfo dove ha vissuto per due mesi prima di trasferirsi definitivamente nel monastero Mater Ecclesiae.
Da quel momento il “pellegrino”, come lui stesso si definì, è apparso poche volte pubblicamente. In questi dieci anni non ha più indossato i mocassini rossi, pochi sanno che era diventato cieco all’occhio sinistro e l’udito lo abbandonava sempre più. Nel corpo andava consumandosi ad ogni nuova apparizione. Di volta in volta era più smagrito. Eppure il suo volto acquisiva una dolcezza sempre più profonda. A chi gli domandava se continuava a scrivere, lui rispondeva: “Sì il commento al vangelo della domenica…”. “Scrive omelie per quattro, cinque persone?”. E lui rispondeva: “Che siano solo tre o mille, la Parola di Dio deve sempre raggiungere l’uomo”. Era per noi tutti l’icona eloquente di quella fede che lui stesso aveva voluto sintetizzare in una frase stupenda a conclusione degli Esercizi spirituali del 23 febbraio 2013 per la curia romana prima della fine del suo pontificato: “Credere non è altro che, nell’oscurità del mondo, toccare la mano di Dio e così, nel silenzio, ascoltare la Parola, vedere l’amore”.
Quell’oscurità Ratzinger l’aveva vista provando sulla sua pelle ciò che l’ateismo produce nel mondo: da bambino aveva assistito alla scomparsa dei crocifissi nelle scuole e poi da soldato a 17 anni ha conosciuto cosa il delirio di onnipotenza dell’uomo, che cerca di fare tutto senza Dio, può generare. Il suo baluardo era stata la fede dei suoi genitori: “Nella fede dei miei genitori trovai la conferma che il cattolicesimo fosse il baluardo contro il regno dell’ateismo e della menzogna rappresentato dal nazionalsocialismo” ha detto in un’intervista con Peter Seewald.
Quella fede rocciosa la ritroviamo nel testamento spirituale. Quelle poche righe sono sorprendenti per l’ampio spazio che Benedetto dedica alla sua famiglia. “Ringrazio i miei genitori, che mi hanno donato la vita in un tempo difficile e che, a costo di grandi sacrifici, con il loro amore mi hanno preparato una magnifica dimora che, come chiara luce, illumina tutti i miei giorni fino a oggi. La lucida fede di mio padre ha insegnato a noi figli a credere, e come segnavia è stata sempre salda in mezzo a tutte le mie acquisizioni scientifiche; la profonda devozione e la grande bontà di mia madre rappresentano un’eredità per la quale non potrò mai ringraziare abbastanza”. Il grande teologo riconosce nell’impronta educativa e nell’affetto familiare, il cuore della sua fede e del suo pensiero.
È commovente tutto questo. Non è superfluo ricordare che l’ultimo viaggio di Benedetto XVI è stato nella sua Baviera, a fine giugno del 2020, per andare a trovare il suo amato fratello, padre Georg Ratzinger, con cui condivideva anche la data dell’ordinazione sacerdotale, il 29 giugno del 1951, per una visita di commiato al fratello morente, prima della sua scomparsa il primo luglio. “Tu sei colui che mi precede…”, gli diceva sempre Joseph. E questa osservazione fraterna è diventata anche l’ultima profezia.
Il Papa che era nato nel giorno del Sabato Santo, il 16 aprile 1927 ha concluso il suo cammino terreno il 31 dicembre 2022 durante l’ottava di Natale. È un segno eloquente di quel cammino che lo ha caratterizzato. Da teologo ad umile servitore, da adulto a bambino. In fondo è questo il segreto di una vita santa. Per essere cooperatori di verità, bisogna tornare bambini “perché di essi è il regno dei cieli”.
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