CORRISPONDENZA FAMILIARE
Pace o resa? Ridare voce alla speranza
19 Dicembre 2022
La commozione di Papa Francesco nel giorno dell’Immacolata per la guerra ancora in corso tra Ucraina e Russia ci interpella tutti e chiede con estrema chiarezza un intervento decisivo. Non basta essere genericamente contro la guerra, bisogna anche condannare il dispotismo e la prepotenza senza tanti giri di parole. Ma nella Chiesa la pensano tutti così?
Parole che hanno commosso il mondo, quelle che il Papa ha pronunciato l’8 dicembre a Roma, nel tradizionale appuntamento con l’Immacolata:
“Vergine Immacolata, avrei voluto oggi portarti il ringraziamento del popolo ucraino, per la pace che da tempo chiediamo al Signore. Invece devo ancora presentarti la supplica dei bambini, degli anziani, dei padri e delle madri, dei giovani di quella terra martoriata, che soffre tanto”.
Ha parlato con una voce rotta dal pianto, il volto segnato dalla sofferenza per una situazione che si prolunga oltre ogni ragionevolezza e continua a mietere vittime, oltre a distruggere la terra e i sogni di un’intera generazione.
Ancora una volta Papa Francesco ha preso posizione con estrema ed esemplare chiarezza. Quando un popolo aggredito in modo così brutale e la violenza si abbatte in modo unilaterale su un intero Paese, non è possibile coltivare dubbi. No war, dicono i buonisti. Siamo tutti d’accordo: nessuno vuole la guerra. Ma i pacifisti ad oltranza dimenticano di aggiungere: “No aggressione, no invasione, no prepotenza”. No, non possiamo nemmeno per un istante appoggiare o giustificare l’arroganza e l’ingiustizia, premesse di una storia in cui il dispotismo oppressivo dei popoli potenti pretende di dettare legge e di annettere con la forza le Nazioni che non hanno mezzi per resistere alla sopraffazione.
Non tutti in Vaticano la pensano come il Papa. A metà ottobre, il cardinale Zuppi, Presidente della CEI, ha approfittato di una conferenza sul monaco Dossetti per lanciare un sasso nello stagno:
“Dopo 80 anni ancora siamo costretti a vedere i morti. Ecco perché anche quell’articolo 11 della Costituzione italiana, per ripudiare la guerra – oggi in Ucraina, ma anche nel resto del mondo, grandi e piccole che siano, finanche nelle stesse famiglie – è così attuale. E la seconda parte dell’articolo, a cui tanto lavorò Dossetti, è ancora più importante: meglio perdere un pezzo di sovranità e risolvere i conflitti. Invece di prendere le armi, discutiamo. Qualcuno faccia davvero da arbitro dunque, per far sì che il fratello non ammazzi il fratello”.
Senza troppi giri di parole, il cardinale suggeriva la resa come necessaria premessa per giungere quanto prima ad una pace onorevole e risparmiare così altre vittime. Alcuni giorni dopo, nel corso di una Conferenza internazionale sulla pace organizzata da Sant’Egidio era stato lo stesso Riccardi, storico fondatore della comunità, a ribadire questa opzione come l’unica via d’uscita dal tunnel della guerra.
L’intenzione è certamente lodevole, l’etica chiede di fare tutto il possibile per contenere il male. A parte le questioni strettamente politiche, resta però una domanda: in mancanza di un arbitrato internazionale, arrendersi non significa forse giustificare una palese ingiustizia? Dare al nemico la possibilità di prendersi un territorio sovrano, non significa accettare la logica del più forte? E tutto questo, anche se apparentemente chiude le ostilità, non pone forse le premesse per altri e più gravi conflitti in Ucraina e in altri territori contesi? La storia del Novecento potrebbe insegnare molte cose a questo riguardo.
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Anche se tutti i protagonisti di questa tristissima vicenda, fanno a gara a mostrare i muscoli, anche se nessuno vuole cedere di un millimetro, è bene ribadire che la pace non solo è possibile ma doverosa, va cercata in ogni modo attivando tutti i canali. Lo ha fatto alcuni giorni fa il cardinale Parolin, Segretario di Stato e primo responsabile della diplomazia vaticana. Ha lanciato un pesante interrogativo rivolto a tutti: “Non possiamo non domandarci se stiamo facendo di tutto, tutto il possibile per mettere fine a questa tragedia”. Ed ha poi aggiunto:
“Abbiamo bisogno di coraggio per scommettere sulla pace e non sull’ineluttabilità della guerra, sul dialogo e sulla cooperazione non sulle minacce e sulle divisioni. Abbiamo bisogno di una de-escalation militare e verbale per ritrovare il volto dell’altro perché ogni guerra, diceva il venerabile Mons. Tonino Bello, trova la sua radice nella dissolvenza dei volti. […] Non restiamo sordi al grido dei popoli che chiedono pace non guerra, pane non armi, cure non aggressione, giustizia non sfruttamento economico, energie pulite e rinnovabili per lo sviluppo non energia atomica per ordini distruttivi che negano la possibilità di futuro per la nostra casa comune”.
Le lacrime del Papa, ha detto ancora il Cardinale, sono il segno di un’umanità che non si chiude nell’indifferenza e non si rassegna alla barbarie della guerra. Non basta fermare la guerra in Ucraina, né basta deplorare i numerosi focolai bellici presenti in tante aree del mondo. Non basta neppure definire un diritto internazionale “contra bellum”, come diceva profeticamente Giorgio La Pira (1904-1977), è necessario sapere a chi ha l’autorità di far rispettare il diritto. Nella disastrosa guerra che investe l’Ucraina l’ONU appare colpevolmente assente, mostra una debolezza che mal si addice a un organismo nato come casa comune dei popoli. C’è una lacuna strutturale che di fatto favorisce i potenti a scapito dei deboli.
Nella liturgia natalizia, che ci apprestiamo a celebrare, risuona l’antica parola del profeta Isaia che annunciava un tempo di gioia: “Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse” (Is 9,1). Le inquietudini del cuore non devono oscurare la speranza. A partire dalla luce che viene dal Cielo, il credente s’impegna a costruire sentieri di pace con il cuore e con le mani, con la preghiera e con le parole. Siamo tutti chiamati in causa.
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