Vite dei Santi
La famiglia non approva la fede: come reagire? La storia di Pier Giorgio Frassati
di Chiara Chiessi
Il contesto familiare in cui cresce il beato Pier Giorgio è ostile alla fede, ma lui maturerà ugualmente un’intensa spiritualità che lo porterà a diventare un grande modello per tanti giovani e ad essere il responsabile della conversione del padre… sua è la frase: “Vivere senza fede non è vivere, è vivacchiare”.
Figlio di una Torino all’inizio del secolo XX, tra ricordi storici e sabaudi, tra santità ed anticlericalismo, Pier Giorgio Frassati cresce in una famiglia che non comprende la sua fede e le sue scelte di vita. Il padre lo considera scansafatiche, la madre, quasi sempre assente, non capisce perché Pier Giorgio vuole recitare sempre il Rosario ed andare a Messa tutti i giorni. L’unica che lo difende dalle incomprensioni familiari è la sorella Luciana…
“Bisogna che ti persuada, caro Giorgio, che la vita bisogna prenderla sul serio, e che così come tu fai, non va: né per te, né per i tuoi, i quali ti vogliono bene e sono molto amareggiati per tutte queste cose che succedono troppo spesso e si ripetono sempre monotone e dolorose. Ho poca speranza che tu cambi, eppure sarebbe strettamente necessario cambiare subito: prendere le cose con metodo, pensare sempre con serietà a quello che devi fare, avere un po’di perseveranza. Non vivere alla giornata, senza pensiero come uno scervellato qualunque. Se vuoi un po’ di bene ai tuoi devi maturare. Io sono molto, ma molto di cattivo umore”.
Queste sono le parole che il padre di Pier Giorgio Frassati, Alfredo, giornalista e proprietario del quotidiano “La Stampa”, divenuto poi senatore ed ambasciatore di Berlino, scriverà commentando negativamente alcuni atteggiamenti e scelte del figlio.
In casa, infatti, il giovane santo non è compreso: preferisce pregare il Rosario, frequenta le riunioni della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), riceve la Comunione quotidiana, visita i conventi domenicani. Per il padre, anticlericale, tutto ciò è una perdita di tempo: l’unica cosa che conta è che il figlio conquisti un posto di rilievo nella società, come aveva fatto lui stesso in gioventù.
Pier Giorgio, però, è uno straordinario autodidatta del Vangelo: nutre da solo la sua sete di Dio. Avverte dentro di lui un profondo desiderio di infinito che nulla riesce a colmare.
A 17 anni entra nell’istituto sociale dei Padri Gesuiti, seguito da Padre Lombardi, suo direttore spirituale, che gli consiglia la comunione quotidiana, con grande contrarietà dei genitori. Successivamente aderisce alla Confraternita di San Vincenzo, per dedicarsi ai poveri ed agli infermi, con le lamentele dei genitori che lo vorrebbero più interessato al lavoro ed all’amministrazione familiare.
Per Pier Giorgio, i valori importanti sono ben altri: Dio, il trascendente, la giustizia in nome del Vangelo, l’amicizia. Si sente attirato dal carisma domenicano ma allo stesso tempo non vuole diventare sacerdote. A 21 anni diventa terziario domenicano.
Negli anni degli studi universitari al Politecnico, il giovane santo crea un gruppo di ragazzi e ragazze, “la Società dei Tipi Loschi”, che vogliono servire Dio in perfetta letizia.
Durissimo fu il suo impegno politico e sociale contro il fascismo, tanto che lo stesso padre verrà perseguitato per questo motivo. Non gli era sufficiente aiutare i poveri, andare nelle loro misere soffitte, nei tuguri dove la malattia e la fame si confondevano nel dolore; voleva dare una soluzione a quei problemi di miseria e di abbandono e la politica gli pareva la via più idonea per fare pressione là dove si decideva la giustizia.
Lo status a cui il giovane apparteneva lo distingueva dagli altri: era infatti figlio di un senatore, ma andava nelle cantine dei poveri a prestare assistenza e aiutava quotidianamente le famiglie che avevano tanti problemi.
A giugno del 1925 il padre gli chiede di entrare ne “La Stampa” e dunque di rinunciare alle sue aspirazioni professionali, come quella di lavorare fra i minatori. Il senatore non ha il coraggio di parlargli direttamente, così chiede all’amico Giuseppe Cassone, cronista de La Stampa, di farlo al suo posto.
Lo stesso Cassone testimonierà: «Un giorno che egli [Pier Giorgio] era venuto a trovarmi in ufficio colsi l’occasione. Gli parlai come si parla a un figlio assennato e caro. Mi ascoltò in silenzio, poi mi domandò: “Cassone, crede proprio che venendo io qui a La Stampa il babbo sarà contento?”. Dissi di sì. Egli non esitò più: “Dica al babbo che accetto”. Lo considerai un grande sacrificio per lui, e commosso, l’abbracciai».
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Per amore del padre, il giovane Pier Giorgio cambiò le sue aspirazioni, perché voleva vederlo felice. Non è già questo un segno di quell’eroismo di generosità che lo caratterizzerà per tutta la vita? Un giorno, ad un amico che gli aveva domandato che cosa avrebbe voluto fare dopo gli studi, rispose: «Non lo so: sacerdote no, perché è una missione troppo grande e non ne sono degno; il matrimonio no. L’unica soluzione sarebbe quella che il Signore mi prendesse con sé». La morte lo rapì, venne infatti colpito dalla poliomielite fulminante.
E ancora una volta la famiglia non lo comprende: tutti concentrati sulla salute dell’anziana nonna Ametis, non si accorgono della gravità del suo male. Non un lamento uscirà dalla sua bocca, non una richiesta. «Il giorno della mia morte sarà il più bello della mia vita» aveva detto ad un amico. Quel giorno arriverà il 4 luglio 1925.
Quali pensieri avrà avuto il padre di Pier Giorgio di fronte alla bara del figlio “ribelle”, alla quale rendevano omaggio, con suo sconcerto, migliaia e migliaia di persone e di poveri della Torino semplice e umile?
Tutti i presenti erano lì non per i meriti del nome Frassati, ma per Pier Giorgio, solo per ciò che lui e lui solo ha rappresentato, non per la fama del padre senatore, giornalista ed ambasciatore.
Alfredo avrà di certo ripensato a quante incomprensioni c’erano state tra lui ed il figlio, a quanto poco lo conosceva, a quanto si sarebbe potuto sforzare di più per capirlo piuttosto che condannarlo per la sua fede.
Un lungo processo, questo, che lo porterà alla conversione, così come avvenne per la madre di Pier Giorgio. Interessante ciò che scrisse Alfredo alla cognata Elena:
“Cara Elena, […] la vita è finita realmente: ogni giorno che passa vedo più chiaramente l’abisso: mi parevano meno grevi i primi giorni. L’ho sempre nel cuore. Nessuno ha compreso cos’era Pier Giorgio per me: il mio orgoglio, la mia passione. Vedevo in lui in realtà tutte le belle qualità che avevo sognato di avere io, che non ho avute, ma vedevo anche nel suo carattere intransigente e buono, il mio carattere intransigente e non cattivo: vedevo nell’affetto suo per gli umili, il mio affetto, mi pareva che in lui si fosse moltiplicato per miliardi quel po’ di non cattivo che c’è in me”.
Il giovane santo amava infinitamente la sua famiglia nonostante l’ambiente ostile, e decise di non sposarsi, ma intraprese comunque il suo percorso autonomo di fede e di impegno sociale. La sua vocazione era proprio questa, quella di essere laico consacrato ed aiutare gli ultimi nella società. Probabilmente, se si fosse sposato o se fosse diventato sacerdote avrebbe realizzato, ma in modo diverso, il cammino che la Provvidenza voleva per lui. Si sarebbero comunque convertiti i genitori? Per amore alla fede, Pier Giorgio si è ribellato al contesto familiare da cui proveniva, perché, come scrisse una volta ad un amico “vivere senza fede non è vivere, ma vivacchiare”.
Grazie al suo esempio ed alla sua eroica testimonianza di vita, tanti giovani hanno trovato il modello di un santo come loro da cui trarre ispirazione, in un mondo sempre più ribelle a Dio.
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