23 Agosto 2022
“Certe volte mi chiedo se non sia io una di quelle cui molto è stato dato e molto sarà chiesto”
Ero ancora adolescente quando il mio padre spirituale ci presentò la figura di Benedetta Bianchi Porro. Ero in quell’età in cui si è affascinati da modelli e miti da seguire. Un’esistenza breve quella di Benedetta, appena 28 anni ma come scrive il Cardinale Angelo Comastri nella prefazione alla sua biografia che conservo tra i libri più belli: la vita di Benedetta è ancora oggi «un archivio di esperienze, dove è possibile fare continue scoperte.
Nasce a Dovadola, in provincia di Forlì, l’8 agosto 1936. Di salute cagionevole, è colpita da una emorragia già alla nascita e la madre le conferisce il battesimo di necessità con acqua di Lourdes. “Io penso che cosa meravigliosa è la vita anche nei suoi aspetti più terribili; e la mia anima è piena di gratitudine e di amore verso Dio per questo”: a pronunciare queste parole è lei stessa a soli vent’anni, già cieca, sorda e totalmente paralizzata da una malattia subdola e devastante che ha risparmiato solo la sua intelligenza, un filo di voce e una mano per mezzo della quale comunica con il mondo.
La malattia è la sua via di santità: a tre mesi la poliomielite, che le lascia una gamba più corta dell’altra per cui sarà chiamata “la zoppetta”; poi deve indossare uno scomodissimo busto, per le deformazioni della schiena. Malgrado la guerra (è nata nel 1936), la salute non proprio brillante e svariati traslochi, riesce a diplomarsi e ad iscriversi all’università ad appena 17 anni. Vuole diventare medico per aiutare gli altri, perché sa benissimo cos’è la malattia. E non solo per i malanni dell’infanzia, quanto piuttosto per ciò che sta turbando la sua adolescenza ed infrangendo tanti sogni: a partire dai 13 anni comincia ad accusare una progressiva perdita dell’udito, che si acuisce con il passare degli anni. Poi comincia a barcollare e per camminare deve appoggiarsi ad un bastone, mentre a 20 anni un’ulcera della cornea le indebolisce paurosamente la vista.
L’anno successivo (siamo nel 1957) i suoi studi di medicina le permettono un’autodiagnosi, confermata poi dai medici: la sua malattia si chiama morbo di Recklinghausen, ed è un proliferare di piccoli tumori che minano il sistema nervoso. Con straordinaria forza di volontà, malgrado la sordità, continua a studiare ed a sostenere gli esami, incontrando anche professori insensibili che si fanno beffe del suo handicap. Un primo intervento chirurgico alla testa le provoca una paresi facciale; un secondo intervento al midollo, nel 1959, la paralizza completamente.
Dopo aver attraversato la notte buia della sofferenza e della solitudine, essersi terrorizzata per lo spettro della cecità e della sordità, aver pianto sui più bei sogni che ha visto frantumarsi, finalmente una luce comincia ad illuminare il suo buio interiore. Gesù comincia a farsi strada nella sua vita e la sua è una presenza sempre più significativa e preziosa, che dà un senso alle giornate interminabili, al dolore fisico, al buio ed al silenzio che la circonda: “Mi accade di trovarmi a volte a terra, sotto il peso di una croce pesante. Allora Lo chiamo con amore e Lui dolcemente mi fa posare la testa sul suo grembo”. Attorno al suo letto tanti amici cercano di riempire la sua solitudine, ma tornano a casa pieni della serenità che trasmette, come quando riesce a sussurrare loro: “La vita in sé e per sé mi sembra un miracolo, e vorrei poter innalzare un inno di lode a Chi me l’ha data … Certe volte mi chiedo se non sia io una di quelle cui molto è stato dato e molto sarà chiesto…”. L’unico modo per comunicare sarà un alfabeto tracciato sul palmo della mano.
Nel 1962 la portano a Lourdes, alla ricerca di un miracolo che avviene, ma per la malata coricata sulla barella accanto. Ritorna a Lourdes l’anno dopo e questa volta il miracolo è per lei: non della guarigione fisica, ma della scoperta della sua vocazione alla croce: “Mi sono accorta più che mai della ricchezza del mio stato e non desidero altro che conservarlo”. Nel gennaio 1964 si accorge che le sue condizioni generali sono peggiorate parecchio: “spero che la “chiamata” non si faccia attendere troppo”, dice serenamente agli amici. La chiamata arriva il 23 gennaio e si congeda da questo mondo con un messaggio di speranza: “Amate la vita, perché anch’io sono stata contenta di quello che Dio mi ha dato”.
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