Ci sono persone che con la loro vita lasciano una scia luminosa. Persone che hanno pagato per il loro impegno a favore della vita nascente. Persone scomode e proprio per questo profondamente evangeliche, profondamente umane. Il 15 agosto, nel giorno della solennità dell’Assunzione è morto Leo Aletti: ginecologo, professore, primario, sposo e padre ma soprattutto un uomo che ha dedicato una vita intera a difendere, proteggere, amare i bambini nel grembo della donna.
Era nato a Varese il 17 giugno 1945, laureato in Medicina, specialista in Ostetricia e Ginecologia, ha lavorato presso la Clinica Ostetrica Mangiagalli di Milano e dal giugno 1999 è divenuto primario ospedaliero presso l’Azienda Ospedaliera di Melegnano. Ha scritto un libro bellissimo, “Carne, ossa, muscoli e tendini – In difesa della vita nascente”, che ho letto qualche anno fa e che mi colpì tantissimo per la sua chiarezza, la trasparenza, la consapevolezza di quegli anni che portarono all’approvazione della legge 194 ma anche per le vicende umane presso la clinica Mangiagalli di Milano che raccontava: storie di madri ingannate, di cosiddetti aborti terapeutici su bimbi sanissimi, di genitori terrorizzati da campagne mediatiche costruite ad arte.
Era uno che le cose non le mandava certo a dire. Nel gennaio 1989 Aletti assieme al collega e amico Luigi Frigerio denunciarono interruzioni di gravidanza dopo i 90 giorni effettuate presso la clinica di Milano. Quelle pratiche violavano la stessa legge 194: un caso che si trascinò per un anno e mezzo con ispezioni, inchieste, processi e amnistie. Non si limitò da ginecologo a non praticare aborti. Fece molto di più e questo gli attirò critiche, denunce, opposizioni.
Tutto questo supportato da una fede rocciosa e un amore immenso per la sua famiglia. Insieme alla moglie ebbero otto figli, uno di loro Stefano morì molto giovane in condizioni tragiche e il prof. Aletti soffrì tantissimo per questo figlio. Un altro dei suoi figli, Riccardo, è diventato sacerdote nel 2020 dopo essere entrato in seminario presso la Fraternità San Carlo Borromeo. Era anche lui un medico e il giorno della sua ordinazione volle proprio ricordare l’esempio e la testimonianza di quel padre Leandro: «Fin da piccolo ascoltavo mio padre che, a tavola, raccontava del suo lavoro di ginecologo con il dottor Frigerio in prima fila in ospedale a lottare per ogni vita nascente». Per don Riccardo Aletti, il racconto del papà è rimasto segno fedele di quella fede poi cresciuta a tal punto in età adulta da essere divenuta autentica vocazione: «ogni paziente che decideva per l’aborto era per loro una ferita profondissima, qualcosa che non li lasciava tranquilli. In me, diventava sempre più chiaro che la vita è un bene, qualsiasi cosa possa accedere, perché c’è un Padre che ce la dona continuamente».
Un uomo così non poteva che nascere al Cielo, dopo aver partecipato a Messa alle 7 del mattino, in un giorno così luminoso. Accolto non solo dal figlio Stefano ma anche dalle migliaia di bambini che aveva cercato di strappare dal dramma dell’aborto. Tra tutti il piccolo Leandro che aveva raccolto dal bidone dei rifiuti speciali mentre respirava ancora. Un bambino di 22 settimane abortito. Il prof. Aletti chiese dell’acqua e lo battezzò con il nome di Leandro, poi lo mise in una culla al caldo, lo dissetò a intervalli con delle gocce d’acqua. Quel giorno stesso verso sera il piccolo morì e Aletti commentò: “Un santo in più in Paradiso”. Lo descrive nel suo libro e anche noi oggi possiamo dire di lui: “Un santo in più in Paradiso”.
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