Genio femminile “La forza di un bufalo”: maternità e lavoro, vocazione nella vocazione Autore articolo Di Giovanna Abbagnara Data dell'articolo 26 Maggio 2022 Nessun commento su “La forza di un bufalo”: maternità e lavoro, vocazione nella vocazione di Giovanna Abbagnara Qual è il ruolo della donna nella Chiesa? In che modo è possibile proporre una riflessione autentica sul rapporto tra maternità e lavoro? La bioetica perché è così importante? Queste e altre domande al centro di un’intervista meravigliosa con la prof.ssa Giorgia Brambilla, sposa, madre, docente di Bioetica, scrittrice. Una donna delicata e forte, sensibile e preparatissima. Una testimonianza luminosa di quel genio femminile di cui Giovanni Paolo II parla nel suo magistero. Incontrarla in occasione del Premio Ambasciatore della Famiglia che le è stato conferito il 22 maggio di quest’anno, è stata un’esperienza di grazia. Con lei ho ripercorso un po’ la sua vita e le motivazioni che l’hanno spinta e la spingono nella sua vocazione. Chi era Giorgia da adolescente? Cosa sognava? Cosa desiderava? Era una ragazza che veniva da un’infanzia difficile, con genitori separati, con un padre che in quel periodo sentiva e vedeva poco e niente, con una madre con svariati problemi di salute e che quindi era dovuta crescere in fretta, che di spazio per la spensieratezza non ne aveva purtroppo. Era una ragazza forte e fragile al tempo stesso, con la passione per il pianoforte, per la scrittura e le passeggiate in montagna. Le due figure più importanti della sua vita erano i suoi nonni, con i quali trascorre i momenti felici dell’infanzia e che le trasmettono la fede fino a diventare i padrini di battesimo da grande. Lei ha scelto di intraprendere gli studi per diventare ostetrica, ma poi ha proseguito con la bioetica. Perché? Di recente, ho ritrovato il mio diario. All’inizio del tirocinio, nel marzo del 2001, raccontavo l’esperienza sconvolgente di trovarmi in un contesto in cui in un piano nascevano i bambini e in un altro venivano abortiti, in cui vedevo ragazze della mia età che venivano a chiedere la “pillola del giorno dopo” di notte da sole; donne che si presentavano alla visita infibulate, bambini nati vivi da aborto terapeutico… Questo inevitabilmente mi ha posto delle domande. Nel mio reparto lavorava un ginecologo, il servo di Dio Giancarlo Bertolotti, molto conosciuto dal Movimento per la Vita, che era un vero segno di contraddizione in ospedale. Correvo da lui quando non capivo. Lui mi regalò, tramite il MpV, il mio primo corso di Bioetica, un corso estivo organizzato dalla Cattolica, con Mons. Elio Sgreccia e tutto il suo team. Da lì è cominciato tutto. L’incontro con la fede quando è avvenuto? Accennavo prima che i miei genitori, non mi avevano battezzata alla nascita. Allora questo fenomeno era all’inizio, ma nella mia classe eravamo in due. Fu merito di un’insegnante di religione se mi sono avvicinata alla figura di Cristo e ho chiesto il Battesimo. L’ho ricevuto nella festa di Cristo Re all’età di 10 anni. Mi reputo fortunata (miracolata sarebbe il termine più corretto!) perché la mia volontà di abbracciare il buon Dio non è stata manipolata, non solo dai miei genitori, ma in generale dal mio “microcosmo” (scuola statale, parenti atei, amici indifferenti) e nemmeno dai mass media (la trash tv non era così in voga come ora e internet nemmeno c’era). Mi chiedo spesso se un ragazzo che nel cuore sperimentasse quello che ho provato io, oggi sarebbe veramente libero di compiere un passo così o verrebbe miseramente osteggiato in nome (ecco il paradosso) della libertà di pensiero. Già, perché oggi viviamo in un mondo in cui siamo liberi di uccidere (aborto) e di uccider-ci (eutanasia, suicidio assistito), ma di credere (specialmente se si tratta di fede cattolica), di pensare e di agire coerentemente con il nostro credo, no. Questo perché credere è già un implicito dissenso al pensiero unico! Ma la fede, oltre ad essere un dono, è anche un cammino. E nel mio cammino c’è stato un altro fatto che ha segnato la mia vita spirituale: la missione in Messico. La mia università, collegata al movimento Regnum Christi, organizza ogni anno delle missioni per i giovani di circa un mese nei Paesi poveri del Messico. È stata sicuramente l’esperienza che più ha cambiato la mia vita. È un vero schiaffo che ti riporta alla realtà vera. Non solo per il livello di povertà, ma perché tu vai con l’idea di essere buono e di avere qualcosa da dare e invece ricevi tutto da chi non ha niente ed è considerato niente dal mondo. Da quel momento la mia vita non è stata più la stessa. Anche il mio fidanzato, ora marito, partecipò col gruppo dei ragazzi. È per questo che abbiamo scelto di sposarci nella basilica parrocchiale di Nostra Signora di Guadalupe. Ha accennato all’incontro con il suo futuro marito… Stiamo insieme da 20 anni. Metà della mia vita l’ho trascorsa con lui. Ci siamo conosciuti a Pavia, all’Università. Lui studiava Filosofia, io Ostetricia. Ci fu chiesto dal giornale universitario di scrivere a quattro mani un articolo sull’aborto, secondo un’ottica appunto multidisciplinare, quasi bioetica… E galeotta fu la Bioetica! Ci siamo laureati lo stesso anno e ci siamo trasferiti a Roma per continuare gli studi nelle università pontificie, vivendo da studenti fuori sede, lui con dei ragazzi e io con delle ragazze. Ora alla facoltà di Bioetica siamo “colleghi” e abbiamo scritto anche alcuni testi insieme. Lei si è sposata molto giovane e con ancora molti sogni da realizzare. Una scelta un po’ controcorrente… Non ho mai ragionato per “sogni” ma per vocazione, che poi è un po’ il sogno che Dio ha per la nostra vita. E Lui i sogni li realizza perché conosce meglio di noi ciò che il nostro cuore desidera veramente, come disse ai giovani della GMG del 2000 a Tor Vergata Giovanni Paolo II. Quella notte disse che noi dovevamo difendere la vita sempre. Io all’epoca non sapevo né quale fosse la mia vocazione e meno che mai cosa fosse la bioetica, ma posso dire che Lui ha realizzato i miei sogni e continua a realizzarli. I figli, tre, sono arrivati uno dietro l’altro…è stato difficile conciliare il lavoro con la maternità? Quattro figli, in realtà. Uno è in cielo. Io non condivido molto l’idea di dover “conciliare” famiglia e lavoro. Meglio sarebbe approfondire e realizzare una integrazione tra le due dimensioni, che si trovano entrambe nel cuore e nell’identità della donna. È peraltro normale e logico che una donna, conformemente al suo tipo di formazione e ai suoi interessi, scopra in sé un’attitudine per la vita professionale. Per molte donne, il lavoro è avvertito come parte integrante della propria chiamata a realizzare i propri “talenti” a rispondere attraverso un’attività professionale dei doni ricevuti, consentendo ad altre persone di beneficiare di tali capacità o competenze. Per me maternità e lavoro sono una vocazione nella vocazione. La maternità cosa ha aggiunto o tolto al suo lavoro? La maternità non è stata un ostacolo alla carriera, anzi, mi ha resa una professionista migliore sviluppando in me tante abilità umane di cui faccio tesoro nel mio lavoro, potenziando la mia creatività, ma anche la mia pazienza, la mia affettività. Le idee migliori per pubblicazioni o eventi mi sono venute sempre verso le 3 di notte quando dovevo alzarmi ad allattare o a far fare pipì ai miei figli. Non a caso, i miei libri portano grosso modo le date degli anni in cui sono nati. I momenti duri non mancano; specialmente perché non abbiamo nonni o parenti che possano aiutarci. Ma, proprio perché di “vocazione” si tratta”, il Signore mi ha sempre donato “la forza di un bufalo” (Sal 91,11). Ha dei rimorsi quando deve lasciare per lavoro i suoi figli? Io e mio marito abbiamo sempre cercato di alternarci nello stare con loro e questa continua presenza ha dato loro una base sicura, per cui, anche quando l’incastro tra i nostri orari non riusciva e dovevamo chiedere aiuto a delle tate (cioè delle nostre ex studentesse, ora sposate e mamme pure loro!) i bambini sono sempre stati bene. Il primo figlio veniva con me all’università e stava con i ragazzi della cappellania che me lo tenevano per la durata delle mie lezioni. Il mio secondo, poi, si è sentito in pancia tutte le lezioni di Teologia (durante la seconda gravidanza decisi di approfondire gli studi teologici e prendere il titolo di licenza in teologia). Non a caso si chiama Tommaso. Ma al di là da questo, ho visto che nell’ordinario, la mia saltuaria assenza ha valorizzato il loro stare con papà… e quanto si divertono con lui! E nel rapporto coniugale come è vissuto il lavoro? Mio marito è il carburante di tutto ciò che faccio. È lui che per primo ha creduto ai miei talenti, ad avermi spronato a studiare, a pubblicare, a non mollare in momenti di crisi, a tifare per me sempre e comunque, non pretendendo mai che la casa sia splendente o che a tavola ci sia chissà che. Per prendersi cura di me, per alleggerire i miei carichi non arretra mai di fronte alla fatica, ad incastri orari che a volte gli impediscono pure di mangiare. Ma se glielo chiedi, lui ti dice che non ha fatto niente di che. Lei ha conseguito un dottorato in Bioetica e una licenza in Teologia morale…Perché ha scelto di studiare e poi di insegnare queste materie? Qual è il senso della bioetica nel mondo contemporaneo? La laurea in Ostetricia cosa ha aggiunto anche all’insegnamento della Bioetica? Più che il senso della bioetica dovrebbe considerare la questione di senso nella bioetica. La questione alla radice delle problematiche bioetiche quella di senso; ed è forse proprio per sfuggire a tale angosciante domanda che l’uomo cerca di assicurarsi un controllo completo sulla vita attraverso la pretesa di assoluta libertà illudendosi di avere potere su di essa, ricalcando l’antico sogno di autofabbricarsi. Ma la ricerca di senso di fronte al dolore e alla morte è prima ancora una domanda esistenziale: chi sono? Chi sei? In fondo, un essere umano si procura la morte perché non riesce a considerare se stesso per ciò che è e dunque a riconoscere in sé quel valore, quella preziosità del suo essere persona. Questo è il punto: le questioni di cui si occupa la Bioetica, che racchiudono quella domanda di senso della sofferenza, come scrive Joseph Ratzinger «riguardano sempre un uomo (lo scienziato ricercatore o il medico) posto davanti a un altro uomo (..) che egli è tentato di non considerare e di non trattare come una persona» (J. RATZINGER, La Bioetica nella prospettiva cristiana). Riguardo a me, è stato seguire una chiamata profonda. L’ostetricia mi ha permesso di avere una base scientifica approfondita, indispensabile soprattutto per l’ambito della bioetica clinica, che mi trova coinvolta oggi al Bambin Gesù. Gli studenti che arrivano da lei che idee hanno della bioetica e della teologia morale? Ci sono gli studenti laici, futuri insegnanti di religione o professionisti che studiano perché hanno sperimentato che c’è bisogno di formarsi su temi come questi che ormai sono sempre più all’ordine del giorno E poi ci gli studenti, sacerdoti e religiosi, che invece arrivano un po’ con l’idea che all’interno degli studi teologici la branca morale è un po’ quella di serie B, a causa di una serie di motivazioni storico-culturali che oggi finalmente piano piano si stanno superando a vantaggio di un rinnovamento epistemologico della Morale in una prospettiva sempre più cristocentrica e all’approfondimento di una disciplina nuova come quella bioetica che si sente sempre più nei confessionali e che ha una grande valenza educativa. Parliamo dei suoi lavori di ricerca. Partiamo da uno molto interessante La Bioetica dalla prospettiva della donna, vincitore tra l’altro del Premio letterario “Le parole di Lavinia”. Giovanni Paolo II dice che la donna è la custode della vita, … ma secondo lei quali passi devono ancora essere fatti in questo senso nella comunità ecclesiale? Paolo VI, costituì nel 1973 una Commissione di studio sulla donna nella società e nella Chiesa. Voleva che le donne avessero la propria parte di responsabilità e di partecipazione nella vita comunitaria della società e anche della Chiesa. Ma è con il pontificato di Giovanni Paolo II che troviamo una più incisiva, marcata marcia verso l’uguaglianza e dignità della donna. Il più importante documento a riguardo è – senza dubbio – la lettera pastorale “Mulieris dignitatem sulla dignità e vocazione della donna”, scritta in occasione dell’anno mariano del 1988. Il documento è ricco di riferimenti biblici sulla figura della donna, a cominciare – e non poteva non essere diversamente – dalla figura della Donna per eccellenza, Maria, fino ad arrivare al rapporto Cristo-donne, presente più volte nel Vangelo. Inoltre – dato di grande spessore – il documento voleva anche essere un momento di ringraziamento da parte della Chiesa per il ruolo della donna nella società. La Teologia, poi, non può prescindere da un’attenta riflessione sull’ “essere madre”, che vada cioè senza paura a toccare le corde più profonde della maternità, senza giudicarne le contraddizioni. Solo così sarà possibile cogliere la vera essenza del cuore di una donna, che è un cuore materno anche se non ha figli, dell’intensità di amore di cui è capace e a cui è chiamata per natura, con conseguenti risvolti sia di tipo spirituale sia di tipo pastorale. Nella relazione con il sacerdote, la donna non è solo figlia e sorella, ma anche una madre che lo aiuta a crescere spiritualmente. Questo aspetto della maternità spirituale verso i sacerdoti, vissuto da tante sante donne consacrate o sposate (ad esempio, la ven. Luose-Marguerite Claret de la Touche e la ven. Concepción Cabrera de Armida) è stato particolarmente evidenziato dal Magistero recente. Così il sacerdote può vivere bene la sua identità sacerdotale senza nessuna forma di paternalismo o clericalismo, con grande rispetto e stima verso la dignità della donna. Aiutare i sacerdoti ad amare Cristo con cuore di madre: questa potrebbe essere una sfida spirituale avvincente. Lei è anche autrice di un testo Riscoprire la bioetica… (Rubettino, 2020). È molto importante che il mondo cattolico sappia anche riconoscere i fondamenti che portano la bioetica a dire dei no. Un certo modo di pensare cattolico liberale degli ultimi anni ha portato ad un pensiero sui generis su alcuni temi. Ci si nasconde dietro un pluralismo, un pluralismo dove la morale sembra non avere più un impatto importante. E quasi si ha paura di mettere dei paletti. Qual è il problema secondo lei? Il paravento del pluralismo è in realtà uno strumento ideologico per escludere a priori la verità fino a considerare la verità stessa come dannosa, compromettendo la ragione stessa fino all’implosione della morale – e in questo caso della Bioetica, che rischia di non avere più nulla da dire sul significato e sullo scopo della vita dell’uomo. Si riducono i professionisti di questa disciplina a “geografi” che fanno mappe, ma che poi non sono più in grado di dire cosa è giusto e cosa è sbagliato. In questa prospettiva, le norme morali non possono che apparire come limitazioni ingiustificate; c’è bisogno di quella sapienza sull’uomo senza cui le soluzioni morali non soddisfano. Non si può costruire la morale a partire dall’etica, cioè a partire dalla ricerca di soluzioni particolari, senza confrontarsi sulla scelta fondamentale che tutte le sostiene e le motiva. Abbiamo sentenze giuridiche sempre più gravi sull’aspetto bioetico. Un elemento giuridico che sembra prevalere sulla riflessione teologica, bioetica, razionale e filosofica. A tratti anche su quello legislativo. Cosa ne pensa al riguardo? Tutto discende in realtà da un problema antropologico, prima ancora che giuridico. L’uomo, infatti, è sempre tentato da una forma di utilitarismo. Del resto, se egli da solo deve garantirsi la sua esistenza e il suo futuro, non può essere completamente disinteressato, l’altro gli apparirà sempre in qualche modo come un mezzo per la sua felicità, un mezzo per sé, per garantirsi la sua esistenza. Questi saranno gli occhiali con cui guarderà il suo simile, ma anche se stesso, incapace ormai di riconoscersi. E in un continuo palleggio tra individuo e società, anche la società stessa comincerà a chiedersi chi le serve e chi no, oppure chi supererà i costi rispetto agli utili. Così, come nel film “The giver” comincerà a “congedare” gli anziani con l’eutanasia, aprirà nuove strade che conducano ad un moderno Taigeto da cui buttare neonati malformati con l’aborto post nascita, imbavaglierà chi “sceglie” il suicidio come un ultimo grido disperato di solitudine e dolore. Per lei è stato difficile emergere come donna in una facoltà teologica? Ci sono stati momenti duri, ma che non sono dipesi dal mio Ateneo, anzi, ma dai numerosi stereotipi autolesionistici che a volte sono le donne stesse a rivolgere ad altre donne. Una volta, una donna mi ha detto: «Ora che ti sei sposata, non ce la farai a completare gli studi». E io, dopo il matrimonio, ho preso una laurea triennale, una magistrale e un dottorato. Poi un’altra persona, questa volta un sacerdote, mi ha detto: «Lei è una donna, cosa crede di poter fare in un’Università pontificia?». [Ricordo che le donne sono state ammesse a frequentare le Facoltà teologiche solo a partire dal 1965]. E il mio primo incarico da professore associato è stato organizzare un corso di aggiornamento di due settimane, interamente dedicato alla Bioetica dalla prospettiva della donna da cui è nato un libro che nel 2019 ha vinto un premio letterario “al femminile”, come primo classificato della sezione scientifica. Ma soprattutto, 10 anni dopo, sono diventata professore straordinario in una facoltà di teologia proprio nel giorno della festa della donna. I miei colleghi e i miei studenti, sacerdoti e futuri sacerdoti, della facoltà di Teologia hanno grande stima e considerazione di me. Cosa direbbe ad una donna costretta a scegliere tra lavoro e famiglia? Nessuna donna deve arrivare a svalutare se stessa al punto da trovarsi davanti a questo ideologico “aut aut” tra famiglia e lavoro, tra maternità e carriera. Il nemico della donna non è di per sé il lavoro. Il nemico è l’appiattimento delle differenze che non può che portare a un impoverimento della donna e di tutta la società, con la deformazione o la perdita di quella ricchezza unica e di quel valore propri della femminilità. Tra questi, il più importante è senza dubbio la maternità. Simulare il modello maschile è in realtà l’emblema dell’alienazione del lavoro femminile, che non solo annichilisce la bellezza della donna, ma impoverisce pure la reciprocità della relazione umana fra uomo e donna nel rispetto della differenza. È certamente vero che la responsabilità della donna all’interno della famiglia potrebbe rendere alcuni ruoli professionali incompatibili con “la casa”; ma la donna questo lo sa e laddove non sia aggredita da pressioni ideologiche spersonalizzanti o da colpevoli sensi di frustrazione indotta, sa compiere le proprie scelte in funzione del bene maggiore. Dalla donna passiamo alla famiglia. Lei è autrice di un testo Come olio di nardo. Il valore della famiglia nel mondo contemporaneo. Un testo con la prefazione del Professore Grygiel, amico e collaboratore di san Giovanni Paolo II. Qual è il contributo che questo Papa ha dato alla riflessione sulla famiglia e a che punto siamo oggi? Giovanni Paolo II ha spronato la famiglia a recuperare ciò che le è proprio, a partire dall’aspetto educativo delle nuove generazioni, ma anche del suo essere culla della vita e conforto della fragilità, del suo essere “faro” per la società, diventando così ciò che è, parafrasando il celebre passo di Familiaris Consortio. Una cultura profondamente segnata dal soggettivismo individualistico ha finito con assolutizzare la prospettiva individuale, inneggiando all’“amore libero”, che altro non è che un’affettività narcisistica, instabile e mutevole, sottomessa alle proprie pulsioni e ai propri desideri. Anche la coppia si limita a vivere un’affettività debole – come amava chiamarla Benedetto XVI – votata all’emotivismo relazionale e decisionale, priva di impegno per il futuro e sempre meno incline alla fedeltà, intesa come maturità umana e valoriale prima ancora che sentimentale, in una parola: priva di solidità. Questo conduce a una sociologia “post-famigliare”: da luogo naturale la famiglia viene spinta verso l’artificiale, quasi un ibrido a metà tra l’umano e il dis-umano se non addirittura post-umano; e come l’ingegneria genetica rende natura e cultura indistinguibili, la società odierna fa entrare la famiglia nell’orizzonte del disponibile e del manipolabile rendendo possibili forme di relazione famigliare precedentemente impensabili. Eppure, nonostante tutto questo, la famiglia resiste ai tentativi di “liquidarla” mantenendo una sua identità e densità; e, come olio prezioso e profumato, inonda la società con la sua essenza. Ci prepariamo a celebrare l’Incontro mondiale delle famiglie. Il tema di fondo è la santità familiare. In che modo una famiglia vive la sua vocazione alla santità? In una recente intervista ho parlato dei nemici della famiglia con le “3P”: Paura, cultura del Provvisorio e Perfezionismo. A queste la famiglia che vive la sua vocazione alla santità risponde con altre 3P. Alla Paura, la famiglia risponde con Provvidenza. Per essere coraggiosi non basta essere forti di fronte alla sofferenza e alla sopportazione; non si tratta di essere super-eroi. Il coraggio deriva dalla presa di coscienza di non essere soli e dalla consapevolezza che, mediante il sacramento del matrimonio, la famiglia “è costruita sulla roccia” (Mt 7,24). Alla cultura del Provvisorio, la famiglia risponde con la “P” di procreazione. Quando la coppia si apre alla vita generosamente, oltrepassa l’orizzonte della contingenza e riscopre, in quella abbondanza di amore, di cui i figli sono “frutto e compimento” (CCC 2366), l’essere parte di un progetto più grande che punta “verso l’infinito e oltre”. Infine, al Perfezionismo, la famiglia risponde con la “P” di Pienezza. La ricerca di una “vita perfetta” ci fa investire energie in qualcosa di autoreferenziale che ci dà la sensazione di non essere mai né arrivati né appagati. L’amore reale, legato ad una scelta definitiva e autentica come quella matrimoniale è la salvezza per quest’ansietà cronica perché rivela quotidianamente ad ogni suo componente che la gioia può coesistere con il dolore, non è la sua antitesi, così come la croce è espressione massima dell’amore di Cristo per l’uomo. Aiutaci a continuare la nostra missione: contagiare la famiglia della buona notizia Cari lettori di Punto Famiglia, stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11). CONTINUA A LEGGERE Tag Bioetica, coppia, Giorgia Brambilla, Maternità e lavoro, matrimonio, Premio Ambasciatore della Famiglia, San Giovanni Paolo II Giovanna Abbagnara Giovanna Abbagnara, è sposata con Gerardo dal 1999 e ha un figlio, Luca. Giornalista e scrittrice, dal 2008 è direttore responsabile di Punto Famiglia, rivista di tematiche familiari. Con Editrice Punto Famiglia ha pubblicato: Il mio Giubileo della Misericordia. (2016), Benvenuti a Casa Martin (2017), Abbiamo visto la Mamma del Cielo (2016), Il mio presepe in famiglia (2017), #Trova la perla preziosa (2018), Vivere la Prima Eucaristia in famiglia (2018), La Prima Comunione di nostro figlio (2018), Voi siete l'adesso di Dio (2019), Ai piedi del suo Amore (2020), Le avventure di Emanuele e del suo amico Gesù (2020), In vacanza con Dio (2022). Visualizza archivio → ANNUNCIO Lascia un commento Annulla rispostaIl tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *Commento Nome * Email * Sito web Per commentare bisogna accettare l'informativa sulla privacy. 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