È notte alta e sono sveglia…dovrei cantare come De Crescenzo ma questa notte non posso parlare né dormire. Così scrivo e lo faccio con un nodo alla gola mentre penso che vorrei avere la possibilità di incontrare tutte le donne che domani hanno prenotato una interruzione di gravidanza. Anzi, che domani faranno un aborto. E dire loro: “Fermatevi solo 109 minuti. Il tempo necessario per vedere un film”. Una storia vera, il dramma di centinaia di donne ingannate dall’illusione di poter scegliere cosa fare del loro bambino.
Questa sera insieme ad una platea di 200 persone, in una sala stracolma e silenziosa di Poggiomarino, un comune del napoletano, ho visto Unplanned e non credo lo dimenticherò più. Presente alla serata anche Federica Picchi, fondatrice della Dominus Production, che ha distribuito in Italia la pellicola. Il film racconta la storia vera di Abby Johnson, una donna che da volontaria presso una delle cliniche abortiste più famose d’America, la Planned Paranthood, diviene in un’escalation di aborti personali e altrui, la direttrice della macchina della morte. Il suo cuore viene risucchiato come quel bambino dall’aspiratore nella scena iniziale del film e diventa lo spazio vuoto dove la voce dei volontari per la vita che, ogni giorno sono lì per manifestare e pregare, non viene percepita come un’oggettiva verità.
Abby vive sulla sua pelle le contraddizioni di un sistema che nega la realtà. Quando abortisce la prima volta, il rapporto con il fidanzato crolla e quando si ritrova incinta per la seconda volta e le propongono la RU486, l’aborto farmacologico dicendole che avrebbe dolcemente abortito, avviene invece il contrario ed Abby si ritrova tra dolori fortissimi a fronteggiare quell’esperienza nella più totale solitudine e con gravi rischi per la sua stessa vita. Ma invece di fermarsi…
Credo che la scena più drammatica del film, quella che mi ha fatto sobbalzare dalla sedia, sia stata quella del dialogo tra Abby e sua figlia piccola al ritorno da una giornata intensa di lavoro. Quando la bambina guardando la madre le chiede: “Mamma perché hai le scarpe sporche di sangue?”. Una domanda che credo dovremmo porci tutti di fronte al dramma dell’aborto per aiutare le donne e i loro bambini ad uscire dall’inferno di questa illusione che chiamano “libertà di scelta”.
Il film mette insieme molti temi interessanti, quello della sindrome post aborto, del perdono, del ruolo dei genitori e della preghiera per la vita nascente. È una parabola dalla morte alla Vita. Mi chiedo quanti dopo aver visto questo film avrebbero ancora il coraggio di chiamare l’aborto un diritto? Quanti anche favorevoli hanno l’onestà di vederlo e aprire un aperto e leale confronto sulla realtà? C’è una grande menzogna che avvolge la pratica dell’interruzione di gravidanza: si nasconde il bambino, si silenzia il figlio, si zittisce ciò che veramente avviene durante un aborto.
Questo film finalmente rompe il muro del silenzio. Andrebbe fatto vedere nelle scuole, negli oratori, nelle università. È una rivoluzione che deve partire dal basso. E spero che i giovani presenti ieri sera con me e che hanno riempito la sala per più di due terzi siano i primi annunciatori tra i loro amici.
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