Grazie signora Maraini, per averlo detto a chiare lettere: “L’aborto non è una conquista felice”
“In una società a misura di donna l’aborto non esisterebbe”. Lo dice Dacia Maraini commentando alcuni dati di un’indagine condotta dall’associazione Luca Coscioni. Abbiamo evidentemente posizioni diverse ma finalmente qualcuno parla dell’aborto per quello che è: una ferita bruciante.
“L’aborto non è una conquista felice, in società a misura di donna non esisterebbe”, a pronunciare queste parole non è il leader di un’associazione pro-vita, né un uomo di Chiesa ma la scrittrice, saggista e poetessa italiana Dacia Maraini, in un’intervista a Fanpage.it. Le era stato chiesto, infatti, di commentare i dati che emergono dall’indagine “Mai dati” condotta dall’Associazione Luca Coscioni e presentati durante il Congresso nazionale dell’associazione, per verificare l’effettiva applicazione della legge 194.
Quello che emerge dall’indagine, manco a dirlo, è che negli ospedali italiani ci sono troppi obiettori di coscienza e pertanto le donne che vogliono abortire non trovano sempre le porte aperte. Beninteso: non condivido assolutamente nulla delle posizioni della signora Maraini, pur stimandola profondamente come scrittrice e artista poliedrica. Ma mi ha colpita l’affermazione con cui ho aperto l’articolo, perché finalmente c’è qualcuno che non parla dell’aborto come di una pratica liberante per la donna, ma come di una ferita, perché di questo si tratta, di una ferita che squarcia il cuore e la mente di coloro che la praticano.
In una società a misura di donna l’aborto non esisterebbe, quanto è vera questa affermazione! Le donne non sono fatte per abortire ma per generare la vita. È contro la loro natura e se il genio femminile fosse davvero apprezzato e valorizzato, l’aborto non avrebbe mai trovato spazio né nella cultura del nostro tempo né nel sistema legislativo di un paese. Molte sono le donne che ci arrivano all’aborto perché indirettamente costrette a farlo, lasciate completamente sole ad affrontare realtà troppo grandi per le loro forze e tante volte è solo questione di ore. Quella decisione sbagliata poi ti peserà sul cuore per tutta la vita. Lo dimostra la storia che sto per raccontarvi.
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Lei è Bea, (nome di fantasia). Un matrimonio felice, tre splendidi figli, una grande casa, due bei lavori e tanto di cane golden retriver, dolcissimo oltre che bellissimo. La famiglia del mulino bianco! Una specie di isola felice non fosse per quella gravidanza inaspettata. Può capitare e capita anche nelle migliori famiglie. Non è di certo la fine del mondo. Dopo le prime esitazioni questo quarto figlio viene accolto da tutta la famiglia con grande gioia, ma all’indomani della ecografia strutturale o morfologica ecco la bruciante diagnosi: feto incompatibile con la vita. Alcuni problemi erano già stati evidenziati prima della morfologica, si aspettava una conferma ma mai così paralizzante. A parte lo sconvolgimento interiore che ciascuno può provare di fronte ad un medico che, incarnando la deizzazione della scienza, può stabilire cosa è compatibile con la vita e cosa non lo è scrivendolo su una diagnosi come una qualsiasi ricetta medica. Quello che resta ai due poveri genitori, in casi come questo, è la certezza di avere un figlio malato e di dover soffrire. Poche sono le ore che li separano da quella sala operatoria dove tutti li hanno spinti per una serie di ragionevolissime ragioni umane. A parte il classico “metti una povera anima innocente a soffrire” quella che li colpisce di più è: “Voi non siete eterni. Prima o poi il fratellino malato graverà sulle spalle degli altri tre”. Sentenze impietose che tolgono il respiro, sopprimono la speranza. Poche ore e tutto finisce nell’intimità di una fredda e asettica sala operatoria dove non c’è più nessuno, ma solo lei, la madre dalla quale hanno strappato una vita. Non una vita malata. Semplicemente quella di suo figlio.
Bea ritorna a casa e il suo utero vuoto le pesa come un macigno. Quella decisione l’hanno presa in due, ma ora sembra essere rimasta sola di fronte a un dolore che nessuno può comprendere. Da un punto di vista medico è tutto nella norma, ma qualcosa dentro di lei si è spezzato. Nel suo cuore si alternano una serie indistinta di sensazioni negative, dalla rabbia allo sconforto, dal torpore all’angoscia. Nessuna donna pratica un aborto e poi torna a casa come se niente fosse. È un dolore che non ti abbandona mai, ti si appiccica addosso come una seconda pelle. La comprensione iniziale del marito si trasforma presto in distanza e isolamento. Lei sprofondava mentre lui tornava a vivere per conto suo. Ci sono voluto soldi di terapie e lunghi percorsi interiori per ritrovare un equilibrio. Non una via di guarigione, ma una fragile e delicatissima condizione interiore in cui Bea ancora oggi, cammina come un’equilibrista.
Erano trascorsi solo pochi mesi quando nella scuola dove lavora come insegnante, Bea si ritrova di fronte una ragazzina. Quindici anni appena, l’aria spavalda e disincantata di molti giovani, una femminilità ancora acerba tipica della sua età così tutto e niente. Durante una discussione in classe sull’emancipazione femminile prende la parola, con la voce seria e l’aria tronfia squittisce: “Io sono favorevole all’aborto. Dopo tanti secoli finalmente le donne lo possono fare”. Bea la guarda senza vederla. Cerca delle parole da consegnare a quella adolescente che non aveva ancora iniziato a vivere e già parlava della morte di suo figlio come di una cosa bella. Delle parole che le comunichino tutta la distanza che c’è tra un’ideologia paventata come verità assoluta e la realtà nuda e cruda di un cuoricino che si ferma. “Tu non sai che cosa stai dicendo” le disse alla fine con tristezza “e spero che non lo saprai mai”. Grazie signora Maraini, per averlo detto a chiare lettere: l’aborto non è una conquista felice.
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