Perché dobbiamo pregare?

10 Novembre 2021

preghiera

Chi non se lo sarà chiesto almeno una volta: perché dobbiamo andare a Messa? Perché è importante pregare? La risposta è semplice, l’uomo vive il buio del peccato e l’unico modo per trovare la luce è nutrirsi di Dio.  

In classe, alcuni giovani mi pongono un quesito che sembrerebbe banale così come la risposta potrebbe risultare scontata. La quaestio è la seguente: perché pregare? La domanda non è di poco conto, ma tocca, a mio avviso, l’essenza dell’essere umano, in particolare quella dei cristiani. Per dare una risposta parzialmente esaustiva procediamo per gradi per non rischiarne una veloce e banale.

La bellezza del cristianesimo risiede proprio nella persona di Gesù, nella sua vita. Il Rabbi di Nazaret non solo è un annunciatore carismatico, ma incarna e personifica con la vita ciò che afferma con le parole. Gesù riesce a dare carne ai contenuti della sua predicazione perché è un uomo di preghiera. I Vangeli ci consegnano quest’abitudine – habitus – di Gesù che prega il Padre prima di compiere i miracoli, ma anche prima di annunciare il Regno. La sua vita è stata caratterizzata non solo dalla predicazione e dal contatto con la folla e i discepoli, ma anche da questo continuo rientrare nel cuore del cuore, attingendo continuamente dalla Luce del Padre e mostrando in che modo è possibile raggiungere la perfezione. La preghiera e la meditazione che ci portano a toccare Dio operano anche un cambiamento di vita: la conversione. La conversione del cuore dell’uomo ha la conseguenza di porre ordine nella sua vita e, di riflesso, nella società in cui vive. Per comprendere la categoria del porre ordine bisogna fare un salto indietro ed esaminare, con un breve cenno, la categoria del sacrificio praticato dal popolo ebraico come lo ritroviamo nell’Antico Testamento. 

I sacrifici di animali si svolgevano nel Tempio di Gerusalemme per mano dei sacerdoti ed avevano come obiettivi l’espiazione dei peccati, il ritorno a YHWH, il risceglierLo quotidianamente perché l’ebreo sa di vivere dopo il disordine indotto dal peccato originale. Nel Nuovo Testamento, invece, troviamo un unico grande sacrificio, quello di Cristo sulla croce come Agnello senza macchia immolato. Cosa opera il sacrificio di Gesù Cristo? Pone ordine nella vita dell’uomo attraverso la conversione. Per comprendere il significato del porre ordine dobbiamo tornare, brevemente, al principio genesiaco, precisamente a Genesi, 3 dove viene riportato il racconto del peccato originale. Esso è stato causato dall’aver voluto, inconsapevolmente, cambiare l’ordine interiore ed esteriore prestabilito da Dio generando un disordine ad intra e ad extra. Prima della colpa originale, i progenitori ponevano al primo posto Dio e poi il resto del creato. Con il peccato, invece, l’uomo è disorientato, cioè confuso, incerto, perde l’orientamento e la vita eterna che ora gli si presenta come meta da raggiungere. Essa viene, spesso, smarrita anche come semplice meta. Tale perdita provoca il disordine in tutto ciò che egli compie. L’uomo conserva il ricordo della meta, ma non riesce più a scorgerla, non riuscendo più a mettere Dio al primo posto. Da qui nasce la ricerca sfrenata della felicità, spesso confusa col godimento che passa attraverso i sensi. L’uomo inizia a pensare che possa raggiungere la “meta”, ormai smarrita, ponendo al centro solo se stesso, il suo egoismo, il potere. Ciò genera un circolo vizioso, una sorta di prigione che lo risucchia nell’infelicità e in quello stato che potremmo definire depressione spirituale. Tutto ciò è generato perché la colpa originale (il peccato di superbia) porta l’uomo a focalizzare la sua attenzione solo sulla parte corporea, quasi dimenticando ed ammutolendo l’anima e il soffio di Dio generando una crisi tra corpo, anima e spirito. 

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Gesù, nella sua vita pubblica, sottolinea questo disordine nelle dispute con i gruppi religiosi del suo tempo, definendoli anche con appellativi offensivi: sepolcri imbiancati, razza di vipere. Con queste espressioni, il Cristo vuole sottolineare la marginalità di Dio nella vita dei suoi interlocutori. Pur pregando, la loro preghiera è solo un balbettio mnemonico di formule sterili che non genera un incontro vero con il Dio della vita. Essi, inoltre, pongono pesi sulle spalle delle persone sottolineando l’obbedienza rigorosa alla legge sinaitica che loro stessi, per primi, non riescono ad incarnare vivendo, così, una vita falsa. Gesù, dunque, accusando l’ordine interiore falso che questi gruppi religiosi proponevano al popolo, richiama la necessità vitale di ritornare all’ordine prestabilito da Dio nel giardino genesiaco. Solo ritornando a quell’ordine l’uomo potrà essere felice. In questo discorso si inserisce il sacrificio di Cristo sulla croce che, oltre al perdono del peccato originale, può ridare l’ordine perduto. 

La Grazia che scaturisce dal sacrificio di Cristo ci spinge a porre Dio al primo posto e, di conseguenza, tutta la nostra vita acquisisce quell’ordine che produce stabilità, serenità, luce, pace intima e duratura. L’ordine e, quindi, il cambiamento di vita è frutto del sacrificio di Cristo. Alla luce di tutto ciò risulta più chiaro il senso della preghiera e anche il senso della partecipazione alla Santa Eucaristia. La Divina Liturgia, rinnovando il sacrificio di Cristo, ridona, per Grazia, l’ordine interiore e il cambiamento di vita donando la forza di attuare, nel quotidiano, le parole del canto Frutto della nostra terra: “E sarò pane e sarò vino. Nella mia vita, nelle tue mani. Ti accoglierò dentro di me, farò di me un’offerta viva, un sacrificio gradito a Te”. In altre parole, recupererò la mia vera immagine: il dono di me. 

Perché, dunque, abbiamo bisogno di pregare e di partecipare alla Santa Eucaristia? Perché abbiamo bisogno di questa Grazia senza la quale la nostra vita sarebbe privata della luce. Si prega e si partecipa alla Divina Liturgia non perché Dio ci manderebbe altrimenti all’inferno, ma perché rischiamo di vivere l’inferno già qui su questa terra attraverso scelte sbagliate perché prive della luce di Dio. La Luce, dunque, è essenziale per la vita di ciascuno, tant’è vero che in Veritatis Splendor, 2 si legge: “Ogni uomo non può sfuggire alle domande fondamentali: Che cosa devo fare? Come discernere il bene dal male?”. Ogni uomo è alla ricerca della Verità, anche se molte volte inconsapevolmente. Per cercarla è chiamato ad operare un discernimento costante che passa attraverso una continua lotta che si combatte tra il corpo e l’anima. Per dirla secondo le categorie dell’antica filosofia greca, tra l’anima istintiva e quella razionale. In questo spartiacque tra il corpo e l’anima, tra l’istinto e la razionalità vengono elaborati i pensieri e poi le azioni etiche che sono ordinate se orientate al bene. L’istinto, naturalmente, porta l’uomo a seguire i cinque sensi e tutto ciò che è materiale, ma non sempre produce buoni frutti perché persegue i piaceri immediati. Il corpo, però, non è un qualcosa di negativo, ma va guidato. Ecco ciò che nella lettera ai Romani 7, 18-25 si afferma: “Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio.(…) Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?”. 

L’autore della lettera ai Romani si ritrova, secondo la sua confessione, a pensare azioni eticamente ordinate, buone, ma a compierne altre che si discostano dall’agire cristiano. Dalla lotta quotidiana tra corpo e anima scaturisce la necessità del discernimento. Risulta, adesso, più chiaro il motivo per cui abbiamo bisogno di rientrare nella nostra camera più intima (nel cuore del cuore, come faceva Gesù) e prendere contatto con Dio. In Veritatis Splendor, 2 si afferma che l’uomo non può sfuggire alle domande antropologiche e a quelle su cosa debba compiere per ricercare il bene. “La risposta è possibile solo grazie allo splendore della verità che rifulge nell’intimo dello spirito umano”. La verità rifulge nello Spirito umano e la Verità è una persona: Gesù, il Cristo. Sempre nella lettera ai Romani 12, 1-2 si legge: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale”. L’autore non invita, dunque, alla lacerazione della carne, ma alla mortificazione dell’istinto carnale per far risplendere la Luce di Dio. D’altronde il digiuno dal cibo non è una forma di espiazione dei peccati che, in verità, sono stati già perdonati da Cristo sulla croce, ma una forma di dominio degli istinti per poter porre equilibrio interiore, per poter essere abilitati a compiere azioni eticamente ordinate e corrette. Ritroviamo la pratica del digiuno anche nelle religioni orientali per le quali ha una valenza simile alla nostra: spegnere i sensi, far emergere l’anima ed entrare a contatto con una forza trascendente che guida verso il paradiso. “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, – continua ancora la lettera ai Romani – ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”. 

Rinnovare l’anima significa irradiarla della luce di Dio cercando di non offuscarla con le tenebre del peccato e, dunque, del disordine che porta lo smarrimento della meta ultima. Se si riesce a conservare l’anima in questo stato allora si è in grado di discernere la volontà di Dio: apparirà agli occhi la luce della Verità in forma chiara. Ciò è possibile se non ci si conforma al mondo perché il mondo non conosce Dio, come afferma lo stesso Gesù nel dialogo con Pilato, Gv 18, 33-37, «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Il re di questo mondo non è Gesù e, quindi, il mondo, avendo un altro principe, non conosce la Verità. Se ci si conforma al mondo si rischia di smarrire la Verità condannando la propria anima a vivere nelle tenebre. Il mondo non annuncia la Verità del Vangelo ma una sorta di contro-vangelo che va a solleticare solo il corpo e gli istinti. Ritroviamo una risonanza di questo discorso nella lettera a Diogneto. Questi è un pagàno alla ricerca della Verità. Egli resta colpito dalla vita dei cristiani e scrive ad uno di essi, non conosciamo il suo nome, per porgli una serie di domande. A noi è giunta la risposta. L’autore della lettera, nel rispondere a Diogneto, riporta le domande di questo pagàno mentre ne dà risposta. Diogneto chiede: qual è il Dio dei cristiani? Quale la religione che permette loro di disprezzare a tal punto il mondo e la morte? In che cosa si differenzia da quelle dei greci e dei giudei? Perché questa religione, se è la vera, è apparsa nel mondo così tardi? La risposta dell’autore è una critica sommaria e dura del politeismo e del giudaismo: quanto ai cristiani, dichiara, la loro religione non può essere stata insegnata da un uomo: Dio ne è il fondatore. Il cristianesimo, infatti, chiede ciò che va contro la natura umana: ama il tuo nemico, perdona chi ti fa del male. Si tratta, infatti, di inviti che vanno contro la parte istintiva dell’uomo generando un continuo combattimento. Tale fede proviene da Dio perché il Vangelo, metaforicamente, è come un abito taglia XS, dunque molto stretto, che al suo interno ha diverse etichette cucite con il filo di nylon che genera continuo fastidio. La Parola di Dio non genera mai una zona di comfort ma stimola sempre una messa in discussione. La lettera a Diogneto illustra poi la condizione dei cristiani nel mondo con una serie di paradossi e la paragona alla condizione dell’anima nel corpo: i cristiani sono rinchiusi nel mondo, ma non appartengono ad esso; ne sono odiati, ma lo amano e sono loro che lo tengono insieme. Paragona la presenza dei cristiani nel mondo alla lotta tra corpo ed anima. I cristiani sono presenti nel mondo ma non sono del mondo. L’anima è presente nel corpo ma non appartiene al corpo perché viene da Dio e dal suo interno Lo (riferito a Dio) possiede. Ecco perché i cristiani sono odiati dal mondo (si pensi alle persecuzioni), ma nello stesso tempo essi amano il mondo. 

Questa religione non è frutto d’invenzione umana, ma è la rivelazione dell’amore di Dio, che, inviando suo Figlio, ha riscattato gli uomini dall’abisso in cui la loro incapacità di compiere il bene li aveva gettati (incapacità di compiere azioni eticamente buone). Dio non ha preteso che fossero loro a uscirne, ma il suo stesso apparente ritardo nell’intervenire ha permesso loro di sperimentare più a fondo la sua bontà; e il suo amore rende possibile l’amore praticato dai cristiani in questo mondo, poiché hanno lo sguardo fisso alla loro cittadinanza celeste. È come se Dio, tardando nella sua manifestazione, avesse fatto crescere negli uomini il desiderio di Lui: si pensi al senso religioso e alle domande antropologiche che hanno accompagnato gli uomini fin dall’origine del mondo. Finalmente Dio s’incarna donando senso a tutto. Ciò che rende i cristiani diversi è l’amore di Dio che li abilita ad amare tenendo lo sguardo fisso al cielo. I piedi sono ben piantati sulla terra ma tutto il loro essere è proiettato al cielo. Vivendo in questo modo, le azioni diventano eticamente corrette perché si sa che la vera vita non è questa. Allora anche il sacrificio Eucaristico è vissuto in altro modo. Non si partecipa alla Divina Liturgia e non si prega per obbligo, ma perché si comprende di averne bisogno, si comprende che il sacrificio di Cristo fa toccare la propria vera Patria: è una piccola finestra che si apre sull’eternità. 

 

Perché pregare, allora? Per rimanere nella vita di Colui che ben conosce la morte dei propri fratelli. Per centrarsi nella vita di Cristo che ha scelto di abitare il buio della condizione umana. Un celebre canto liturgico – Resto con Te – riassume tutto il precedente discorso nel verso: “Io lo so che Tu sfidi la mia morte, io lo so che Tu abiti il mio buio. Nell’attesa del giorno che verrà resto con Te”. Ecco il senso della preghiera: da solo non basto e per questo resto con Te.




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Assunta Scialdone

Assunta Scialdone, sposa e madre, docente presso l’ISSR santi Apostoli Pietro e Paolo - area casertana - in Capua e di I.R.C nella scuola secondaria di Primo Grado. Dottore in Sacra Teologia in vita cristiana indirizzo spiritualità. Ha conseguito il Master in Scienze del Matrimonio e della Famiglia presso l’Istituto Giovanni Paolo II della Pontificia Università Lateranense. Da anni impegnata nella pastorale familiare diocesana, serve lo Sposo servendo gli sposi.

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