La Scuola: l’olimpiade della vita dei nostri giovani
2 Settembre 2021
Perché continuiamo a parlare male del nostro sistema scolastico se è vero, com'è vero, che i prodotti delle nostre scuole sono stimatissimi all'estero? I famosi “cervelli in fuga” non sono partiti dalle nostre cattedre? Perché di loro non si parla come dei campioni delle olimpiadi?
All’inizio dell’anno scolastico che sta per partire, dopo l’estate che abbiamo vissuto seguendo l’evolversi dell’emergenza sanitaria che ancora ci attanaglia e ancora riempie buona parte dei pensieri e dei dialoghi di ciascuno di noi, avrei potuto impostare questo articolo parlando di greenpass, vaccinazioni più o meno obbligatorie, distanziamento da mantenere nelle aule, problemi dei trasporti che ancora impediranno il normale flusso degli studenti soprattutto delle scuole superiori, di classi ancora numerose, che il ministro Bianchi cita ormai a memoria, dichiarando di conoscerle caso per caso e che, però, purtroppo ancora esistono nelle nostre scuole. Sarebbe stato persino facile scrivere un articolo parlando di tutti questi argomenti ed infatti sulla maggior parte delle testate giornalistiche, specializzate e non, di questo si è parlato e si parla negli ultimi giorni. Io invece voglio guardare avanti con un occhio al recente passato e proporre una riflessione diversa: secondo me, la vera riflessione da farsi in questo momento storico.
Voglio provare a dire qualche parola su quello che potrebbe essere un atteggiamento diverso da tenere nell’anno scolastico che viene dopo i due precedenti che sono stati assai difficoltosi, come attestato dagli esiti delle rilevazioni Invalsi e dagli incontri fatti in questa estate con diversi studenti. Ne voglio parlare a partire dall’esaltante esperienza estiva legata agli sport di squadra e singoli che hanno visto l’Italia primeggiare prima nel campionato europeo di calcio, poi nel tennis e, infine, alle Olimpiadi, in maniera quasi del tutto inaspettata. Questo intervento però nasce da una lunga chiacchierata avuta con due miei amici: un papà orgoglioso del figlio che insegna fisica teorica in una prestigiosa università americana e il figlio docente ritornato al paese di origine per le brevi vacanze estive in famiglia. Quel papà ha esordito dicendo che negli Stati Uniti le scuole non sono come quelle italiane, sono migliori, secondo lui. Ho provato a ribadire che proprio lui non era autorizzato a fare una simile affermazione e la prova di ciò è proprio il figlio, prodotto della Scuola italiana, che viene accolto a braccia aperte e con riconoscenza da una nazione dove ancora si esalta e vale il merito. Quel figlio accolto perché capace è, infatti, un frutto della Scuola italiana. Perché allora continuiamo a parlare male del nostro sistema scolastico se è vero, com’è vero, che i prodotti delle nostre scuole sono stimatissimi all’estero? Il vero problema riguarda, secondo me, il posto che diamo alla formazione scolastica nel nostro tessuto sociale e le modalità che usiamo nell’affrontare la vita scolastica. E qui vengo alle Olimpiadi e ai successi sportivi.
Se andassimo a rivedere la narrazione delle vittorie, soprattutto olimpiche, noteremmo con una certa facilità alcune costanti: la dedizione totale al raggiungimento dell’obiettivo, la grande mole di lavoro svolto, qualche delusione cocente patita in passato (l’Olimpiade precedente andata male, per esempio), qualche duro colpo inferto da incidenti di percorso come gli infortuni gravi di Vanessa Ferrari e di Gianmarco Tamberi, oppure l’essere nati e cresciuti in ambienti ostili alla crescita serena di un ragazzo, o storie familiari difficili e rapporti da ricostruire con qualche genitore come nel caso di Marcel Jacobs, o, infine, la resilienza dimostrata nel durissimo periodo del lockdown con i garage riadattati a palestre per continuare a lottare per il proprio sogno anche in quelle circostanze così oscure e angoscianti nelle quali le bare trasportate dai camion dell’esercito erano immagine frequentissima. Trovo questa narrazione degli eventi sportivi assai edificante perché suggerisce sentimenti positivi nella popolazione. Trovo anche che, però, essa non vada riservata solo agli eventi sportivi. Penso che essa vada benissimo anche per narrare la Scuola e la vita dei nostri giovani, ovviamente a loro misura. Non è un caso che a La Gazzetta dello Sport il sottosegretario allo Sport, Valentina Vezzali, 6 medaglie olimpiche nella scherma, ha dichiarato che, da settembre, i campioni olimpici sbarcheranno nelle scuole: “Ogni medaglia ha una storia: bisogna raccontarla. Sapete quella che mi è rimasta impressa di più? Quella di Luigi Busà, che ha parlato della sua adolescenza difficile e dell’essere stato vittima di bullismo per il suo peso”. Si dirà che quello è sport, mentre la vita scolastica è altro. Non sono d’accordo.
Prima ancora che dallo sport erano arrivati all’Italia altri riconoscimenti in altri campi. Nello scorso dicembre, infatti, sui giornali italiani si potevano leggere notizie come questa: “Il nostro Paese, ha i migliori ricercatori d’Europa. E le migliori ricercatrici. Per la prima volta, prendendoci tutti un pezzo di gloria che in verità è da ascrivere a questi post-dottorati da almeno sette anni, l’Italia ha il numero maggiore di scienziati premiati nel continente.” Questo perché ai nostri ricercatori sono stati attribuiti 47 premi internazionali. Più di Germania, Francia, Inghilterra. E di questi, ben 23 sono premi andati a donne (più del doppio delle tedesche, seconde in questa classifica, per così dire, di genere). In questi risultati, ci sarà anche qualche merito della nostra scuola, o no? La questione è il posto che diamo nelle priorità nazionali alla formazione scolastica. Faccio qualche esempio più concreto. Nessuno si senta accusato, ma sono casi reali accaduti nelle nostre aule. Di fronte ad un brutto voto, quanti spingono il proprio figlio o studente ad accettare il fatto e ad impegnarsi di più piuttosto che a lamentarsi del docente che non lo ha compreso? E però, abbiamo lodato gli atleti che non si sono arresi. Conosco pochissimi genitori che invitano i propri figli a fare più di ciò che viene assegnato dal professore in classe. Eppure, abbiamo lodato il duro lavoro degli atleti. Conosco pochi professori che assumono come loro responsabilità la crescita del ragazzo, anche attraverso una dose maggiore di lavoro domestico. Eppure abbiamo esaltato gli allenatori che hanno spinto sempre più in alto l’asticella del lavoro.
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Nelle nostre scuole, frequentemente, la difficoltà ambientale del ragazzo è pietra tombale sul suo processo di crescita, cosicché a casa ci si lamenta del fatto che a scuola non si insegni nulla e a scuola ci si difenda dicendo che quel ragazzo, purtroppo, è così, è segnato e ci possiamo fare poco. Eppure siamo andati ad intervistare quegli allenatori nascosti che hanno letteralmente raccattato dalle strade ragazzi difficili per farne uomini e donne oltre che campioni olimpici. Il lavoro di squadra della nazionale di Mancini, nella quale tutti hanno remato nella stessa direzione, ha inevitabilmente molto da insegnarci in questo campo. Dalla cattedra non posso fare altro che notare che scuole, famiglie, istituzioni, oratori, parrocchie, scuole di danza e calcio e piscine potrebbero fare tesoro di quest’esperienza e puntare ad una formazione completa della personalità dei giovani. Cosa dire, poi, riguardo alle motivazioni? Quanti docenti e genitori sanno indicare mete e obiettivi ai loro alunni o figli? È evidente che senza mete da raggiungere ai nostri giovani, chiusi nella loro comfort zone, non sono necessari la dedizione e l’impegno. Questi, infatti, non sono suscitati proprio a causa della mancanza di un obiettivo alto da raggiungere. Per i cristiani si parla di vocazione, di talenti da far fruttare perché altrimenti andrebbero sprecati, come insegna la nota parabola usata da Gesù. Eppure sembra che non sappiamo più indicare la “medaglia d’oro” della vita per cui lottare. Mai come in questo faticoso periodo in cui proviamo a rialzarci è necessario indicare a tutti i giovani una meta che sia antidoto all’ipertrofia del momento presente. Negli ultimi 18 mesi siamo sopravvissuti. Ora dobbiamo progettare e costruire. E chi più dei genitori e degli insegnanti è chiamato a quest’opera di ricostruzione umana? I nostri giovani, anche se non tutti, escono in qualche misura indeboliti e infiacchiti dall’emergenza sanitaria. Negli ultimi giorni mi è arrivata una conferma di questo fatto da un amico nutrizionista che mi diceva di come continui a riscontrare metabolismi al minimo (uso questa espressione imprecisa per capirci meglio) nei giovani chiusi in casa per la DAD da diciotto mesi. Penso che ci sia anche un metabolismo intellettuale e spirituale ridotto al minimo e che questo vada riattivato. Per fare ciò, però, non dobbiamo avere paura di creare troppe difficoltà ai ragazzi. Anzi, esse diventeranno trampolini di lancio come è avvenuto per i diversi atleti vincitori e sconfitti nelle gare sportive. Sì, perché esistono anche le sconfitte e gli sconfitti, le medaglie di legno e coloro che hanno visto solo da vicinissimo la meta senza raggiungerla. Anche questo va insegnato a scuola e, in diversi casi, qualcuno già prova ad insegnare. Esiste anche la possibilità che tutti i nostri sforzi non sortiscano i risultati sperati. Si chiama vita questa possibilità. Conta però l’essersi spesi con tutto se stesso. E poi conta rialzarsi e ripartire. Possibilmente senza doping, cosa che a scuola e a casa, fuor di metafora, significa senza sotterfugi come aiutini, copie dai migliori e/o raccomandazioni. Questi sono espedienti che infiacchiscono e noi adulti non dovremmo volere ciò.
C’è un ultimo aspetto che andrebbe affrontato: solo 17 dei 47 premi di nazionalità italiana riportati in precedenza sono stati ottenuti da ricercatori che operano in università o centri di ricerca nazionali. Trenta sono stati vinti all’estero e renderanno migliori e più prestigiose le università straniere (come l’Accademia austriaca delle scienze, l’Università di Basilea, l’Istituto di tecnologia di Zurigo, l’Università di Lugano e quella di Friburgo, il Cnrs francese). Questi cervelli in fuga, forse saranno stati anche ricevuti dai presidenti Mattarella e Draghi, ma di loro sui giornali non si trovano notizie con la stessa enfasi. Ecco l’altra cosa che dovremmo imparare dalle gare sportive: dare visibilità a chi persegue e raggiunge risultati importanti anche e sicuramente più di quelli sportivi. Forse anche questi ricercatori dovrebbero andare nelle scuole e non solo gli sportivi. Invece diamo moltissima (anche giustificata) importanza ai successi dei Maneskin. Ci sta bene tutto ciò?
Siamo all’anno zero. Quello della ricostruzione. Il lavoro che ci attende è immane. Partiamo, però, come argomentato in precedenza, da una base solida: non tutto è da buttare nella nostra Scuola, anzi! La Scuola andrebbe raccontata con realismo e senza ideologie che fanno sempre male. Ci sono problemi, alcuni dei quali anche gravi. Ci sono anche grandi eccellenze. La situazione che viviamo non può e non deve impedire di dare inizio a quest’opera di ricostruzione umana. Ci è data l’occasione di indicare ai nostri giovani la via del lavoro come officina per la costruzione della propria persona e come “luogo” per raggiungere i propri alti obiettivi nella vita. Inizia a settembre la preparazione all’olimpiade della vita dei nostri giovani. Non ci resta che rimboccarsi le maniche e mettersi a lavoro. Buon anno a tutti.
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