CORRISPONDENZA FAMILIARE
di don Silvio Longobardi
Dinanzi all’eternità. Una lettera ai genitori che hanno perso un figlio
9 Agosto 2021
“Vostro figlio ha ricevuto tutto l’amore possibile: dalla sua famiglia, dalla fidanzata, dagli amici. Ed ha seminato amore in una misura che gli stessi genitori hanno compreso solo dopo la morte, vedendo l’affetto sincero che tanti nutrivano per lui. Amare ed essere amati: se questo è il criterio decisivo, possiamo dire che la sua vita è stata piena, ha ricevuto e donato tutto ciò che rende bella la vita”.
I giorni che precedono la festa dell’Assunta sono – ma è più realistico dire dovrebbero – aiutarci ad alzare lo sguardo verso quella meta ultima in cui la barca della vita trova il suo definitivo approdo. Diciamo la verità, l’ambiente estivo non favorisce riflessioni di lungo respiro, al contrario ci inchiodano ad un presente privo di prospettive. Non sentiamo affatto il bisogno di allargare lo sguardo per contemplare, sia pure da lontano, quella terra misteriosa che si chiama eternità. Facciamo di tutto per non pensare. Eppure in questi giorni vi sono persone che non possono evitare di porsi le domande più scomode, quella che riguardano l’oltre: che cosa ci sarà dopo questa vita? C’è Qualcuno che ci attende o cadiamo nel nulla cosmico? Queste domande affollano la mente di quanti hanno visto morire una persona cara, sono le domande dei genitori che hanno perso un figlio. A questi ultimi è dedicata la lettera di oggi. Penso ad una coppia di amici ma vorrei parlare a tutti coloro che vivono questo dolore.
Carissimi amici,
quando muore un figlio non abbiamo più parole da dire né vogliamo ascoltare quelle che suonano come una vuota consolazione; a volte non abbiamo più neppure lacrime da versare. Resta solo un grande dolore che avvolge tutto il nostro essere, anima e corpo. La casa è diventata il museo della memoria, tutto ci ricorda quel figlio che non c’è più. I pensieri sono lo scrigno dei ricordi, tutto rimanda a quel ragazzo pieno di vita e di sogni. È una sofferenza che vogliamo custodire gelosamente, come un filo invisibile che ancora ci lega a quel figlio, come una zattera nella tempesta. E chi ci chiede di non soffrire, appare ai nostri occhi come un estraneo, anzi un intruso che invade lo spazio dei nostri pensieri.
Ho usato il plurale perché voglio far mio quel dolore e condividere fino in fondo l’esperienza che sembra soffocare ogni speranza e vi chiude in una solitudine inaccessibile, uno spazio in cui nessun altro può entrare. Comprendo quello che state vivendo ma, vi prego, non permettete alla sofferenza di congelare la vita, non lasciate alla morte l’ultima parola. Sarebbe una nuova e più cocente sconfitta. Il buon Dio ci ha creato per la vita e dona una vita che non ha fine. Questa certezza deve restare ben piantata nel cuore dell’esistenza, anzi è la luce che deve illuminare ogni cosa. È triste la vita di chi non sa che il Cielo esiste e che, al termine di questi fragili giorni, troveremo l’abbraccio di Colui che “ci ha scelti prima della creazione del mondo” (Ef 1,4), come scrive l’apostolo Paolo. È questa fede che mi permette di entrare nella stanza del vostro dolore e di consegnarvi parole antiche e nuove.
La vita non si misura con gli anni. Sono gli anni che si misurano la vita. Più che contare i giorni della vita, preoccupiamoci di riempire di vita i nostri giorni, di quella vita che ha il timbro di Dio e dunque contiene in germe la beata eternità. Che cosa rende bella la vita? “Amare ed essere amati”, risponde Madre Teresa. È questo l’abito della gioia, è questa la ragione che dona dignità ai nostri giorni, anche quando sono faticosi. Vostro figlio ha ricevuto tutto l’amore possibile: dalla sua famiglia, dalla fidanzata, dagli amici. Ed ha seminato amore in una misura che gli stessi genitori hanno compreso solo dopo la morte, vedendo l’affetto sincero che tanti nutrivano per lui. Amare ed essere amati: se questo è il criterio decisivo, possiamo dire che la sua vita è stata piena, ha ricevuto e donato tutto ciò che rende bella la vita.
David Buggi è morto nel 2017, a causa di un tumore, aveva 17 anni. Una storia assai triste se la misuriamo con i criteri abituali. E invece, il padre ha dato questa testimonianza:
“Credo che tutti i genitori vogliano vedere il proprio figlio realizzato, io mi sento superato, scavalcato centinaia di volte da David, il Signore mi ha donato un miracolo splendido, vedere il proprio figlio realizzato completamente nella pienezza del Signore, affrontando con un coraggio da gladiatore la sofferenza, soprattutto negli ultimi giorni, è qualcosa che…. Dio esiste, la vita eterna esiste sul serio”.
Sono parole sorprendenti, il modo con cui il figlio, ancora adolescente, ha vissuto la malattia ed è andato incontro alla morte è stata una provocazione luminosa, solo Dio poteva dare questo coraggio. “La vostra tristezza si cambierà in gioia” (16,20), ha promesso Gesù.
Il dolore può diventare una prigione. E dobbiamo evitare che questo accada per non soffocare la vita e non smarrire la gioia di seminare vita. È questa la testimonianza di Zelia Guérin, la mamma di santa Teresa di Lisieux. La morte di quattro figli ha lasciato un’impronta indelebile nel suo cuore, una ferita che il tempo non può cancellare, ma non ha tolto la fede. In una lettera alla cognata racconta la sua dolorosa esperienza: “è un gran bene avere degli angioletti in Cielo, ma non è meno penoso, per la natura, perderli; sono questi le gravi afflizioni della nostra vita” (LF 72, 17 ottobre 1871). Il dolore non soffoca la fede; e la fede non annulla il dolore. Sono due aspetti di una stessa esperienza.
Quando parla dei figli morti prematuramente, Zelia usa un’espressione curiosa che esprime assai bene la sua fede: “Fra loro, quattro sono già ben sistemati e gli altri, sì, gli altri andranno pure in quel regno celeste, carichi di maggiori mariti, poiché avranno combattuto più a lungo” (LF 192, 4 marzo 1877). Un genitore dice che il figlio si è sistemato quando ha lasciato casa, ha trovato un lavoro, si è sposato, insomma quando ha dato stabilità alla sua vita. Per Zelia tutto questo si è già realizzato, quei figli hanno già raggiunta la meta comune, prima degli altri e senza lottare.
Lo sguardo dei credenti misura la vita con l’eternità, sa che i passi della vita, pochi o molti che siano, trovano il loro approdo nella Patria che Dio ha preparato per noi. È questa la promessa di Gesù: “Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi” (Gv 14,3).
La fede accende la luce e la speranza dell’eternità. Se venisse a mancare questa certezza la vita diventerebbe un intreccio casuale di eventi, senza ragione e senza meta. Rimarrebbe solo una dignitosa rassegnazione dinanzi all’imponderabile. Al contrario, la fede dona la grazia di vivere la sofferenza senza perdere la pace del cuore. Ed è questa la luce che chiedo al Signore di darvi. Ne avete bisogno voi per vivere e per diventare profeti e testimoni della vita che non muore. Ne hanno bisogno tanti uomini e donne, e soprattutto tanti giovani, che vivono rannicchiati in un presente senza respiro. Vi prego, date un futuro a questi giovani, fate capire che la vera medaglia che dà peso alla vita è quella di custodire un amore che anche dinanzi alla morte continua a cantare la gioia di vivere. Vi saluto con affetto.
Don Silvio
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stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).
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