Aborto

“Scegli tuo figlio!”

di Ida Giangrande

È toccante l’ultimo video dell’organizzazione canadese Choice42. Una donna inseguita da un’ombra scura che deve lottare per difendere il bambino che porta in grembo. Subito mi torna in mente la storia di Rosa: “La vita è un filo sottilissimo. Una volta che si è spezzato non si può ricucire. Mio figlio non tornerà mentre la consapevolezza di essere stata io a farlo uccidere, quella non me la toglie nessuno. Sarebbe bastato un mio rifiuto. Solo io potevo salvarlo”.

“Scegli tuo figlio”, con questa frase si conclude  l’ultimo video pubblicato da Choice42, una organizzazione canadese che si definisce “pro-donne, pro-bambini e pro-vita” e che si pone l’obiettivo di “creare consapevolezza sull’umanità dei bambini pre-nati e fornire supporto alle donne che stanno affrontando una gravidanza non pianificata o che si occupano di problemi post-aborto”.

Il video è interamente in inglese ma le immagini sono inequivocabili anche per chi non conosce la lingua. Oggi per far nascere un bambino devi combattere contro una minaccia che sembra estendere i suoi tentacoli un po’ ovunque. Le immagini della protagonista della clip mi riportano alla mente l’esperienza che ho vissuto circa un mese fa. Ero in un ospedale di Napoli, attendevo che mi chiamassero per un breve intervento. Da ore ormai vedevo un andirivieni di ragazze ed ero così ripiegata su me stessa che non riuscivo a leggere tra le righe. Poi ecco la voce di un infermiere urlare: “Chi deve interrompere la gravidanza?”. Tutte, ma proprio tutte hanno alzato la mano. Io ero praticamente l’unica a non essere in quel reparto per abortire. 

Ho sentito un freddo pungente penetrarmi fin dentro le ossa, volevo poter immergere la mano nel sacco nero per tirarne fuori almeno una, ma si dileguarono davanti ai miei occhi prima che potessi intervenire. Alcune di loro, appena ragazzine, erano state accompagnate dalle madri, altre si tenevano strette ai loro compagni che le accarezzavano e le baciavano per infondere coraggio. Il coraggio di risolvere il problema. Il coraggio di cancellare quella vita indesiderata. Quante volte ho dato i numeri nel vero senso della parola? Quante volte nei miei articoli ho indicato delle cifre generali per delineare il fenomeno degli aborti che si eseguono ogni giorno negli ospedali del mondo e solo in quel momento, mentre ero a tu per tu col problema, mi rendevo conto che qualsiasi cifra, numero o indicatore è ben lontano dalla realtà. 

Oggi si abortisce come bere un bicchier d’acqua. Un intervento banale, di quella macabra routine che non ci dispiace nemmeno più. È diventata una cosa normale, un altro modo per dire contraccezione. “Se proprio non riesci ad evitarlo allora abortisci”, inizia così la testimonianza di una giovane donna che ho incontrato in questi giorni. Si chiama Rosa, ha 24 anni e non vuole un nome di fantasia. “Chi mi conosce lo sa che l’ho fatto e che poi me ne sono pentita talmente tanto da non riuscire a vedermi in un futuro con un bimbo tra le braccia”. 

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Quella di Rosa è una storia molto comune. Aveva vent’anni, quando conobbe un uomo più grande di lei. Non sapeva che fosse sposato. Lui sapeva il fatto suo e con una ragazza di vent’anni non è difficile. “Il primo bacio? Non c’è mai stato. Abbiamo avuto direttamente il primo rapporto, come si fa oggi per intenderci. È accaduto nella camera di un albergo, di quelli importanti. Dopotutto cosa poteva mai volere un uomo come lui da una come me?” mi domanda facendo spallucce. Ma gli è andata male, perché dopo un mese ecco arrivare la splendida notizia. “La cicogna è in arrivo!” eppure lui non la prende bene. “Dovrei esserne felice?” domanda a Rosa e subito dopo confessa di essere sposato, di avere dei figli e di non volerne altri. “Quello con cui ero andata a letto non era lo stesso uomo che battendomi una mano sulla spalla mi disse che avremmo risolto subito. Risolvere subito per lui voleva dire contattare un ginecologo, pagare e… semplice. Provai a fargli capire che non volevo ma lui mi disse che sarei rimasta sola, che non se ne sarebbe preso cura e… avevo vent’anni. Mi lasciai convincere. Lo feci”. 

In ospedale è facile: ti prendono i dati, ti fanno la visita. Non ti fanno sentire il cuore, non ti dicono niente. Tu ti stendi e dopo qualche minuto è tutto finito. Torni a casa il giorno stesso con i crampi alla pancia e la ricetta di un antidolorifico da prendere in caso di dolore troppo forte. Ma esistono antidolorifici per l’anima? Nessuno ci pensa. Nessuno se ne occupa. Il problema è risolto. Nessuno ha saputo niente. Quel bambino non c’è più e nemmeno la mamma. È questo che mi confessa Rosa: nessuna esce integra da quella sala operatoria. Nessuna donna permette a un aspiratore di entrare nel proprio corpo per portarsi via il figlio e poi va avanti come se niente fosse. Sono trascorsi tre anni dal quel giorno, e ancora adesso Rosa lo ricorda come un giorno di morte, un giro di boa nella sua vita. Un punto di non ritorno. “La vita è un filo sottilissimo. Una volta che si è spezzato non si può ricucire. Mio figlio non tornerà mentre la consapevolezza di essere stata io a farlo uccidere, quella non me la toglie nessuno. Sarebbe bastato un mio rifiuto. Solo io potevo salvarlo”.

Sono parole dure da pronunciare e da ascoltare, ma è la triste e cruda realtà legata all’aborto solo che nessuno si spreca a raccontarla. La sindrome del post-aborto è sconveniente di quelle politicamente scorrette che è meglio tenere nascosta pur di mandare avanti la macchina delle interruzioni di gravidanza. Il perché lo sappiamo bene: aborto vuol dire denaro per le case farmaceutiche, per gli ospedali, per le cliniche specializzate in PMA e IVG. Ce la vendono con l’etichetta emancipazione femminile ma è tutto uno squallido giro di soldi e poco importa se a pagarne il prezzo sono i bambini che non nasceranno mai e le donne che soffriranno in seguito. È ora di svegliarsi, lo dico alle donne che leggeranno questo articolo: facciamo la scelta giusta. Scegliamo i nostri figli.




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