Scuola

di Piero del Bene, insegnante

Io insegnante, di professione seminatore…

22 Giugno 2021

piantina

Nel corso di quest’anno si è tentato più volte di tirare le somme sulla didattica a distanza, ma una risposta concreta la stanno dando gli esami. Quella che credevamo una battaglia persa in realtà sta dando frutti insperati. A noi insegnati il compito di continuare a seminare in ogni modo possibile.

Cosa faccio di mestiere? Il Seminatore. La verità è che dentro di me mi sento un seminatore. E non è solo per il lavoro che faccio, per il ruolo che ricopro a scuola. È proprio un fatto ontologico. Mi piace vedere crescere e pensare che io c’entri qualcosa con quel processo. Per uno così, come è stato l’anno scolastico appena trascorso? Ho aiutato a crescere? La scuola è riuscita a far crescere? 

Dallo scorso luglio abbiamo vissuto una volata, lunga un anno, fatta di impegni per assicurare l’apertura in sicurezza, lo svolgimento delle lezioni in presenza, una presenza vigile, un’attività che somigliasse il più possibile a quella cosa che comunemente chiamiamo scuola. Poi è arrivato di nuovo il lockdown, la Dad, i casi positivi nelle classi, le temporanee chiusure, le riaperture speranzose, le polemiche immancabili da parte degli aperturisti quando si chiudeva e dei “chiudisti” quando si riapriva (mi lamento, ergo sum: ecco il motto di molti in questo anno scolastico da entrambi i lati della cattedra). Poi i vaccini col loro strascico di assenze dei docenti perché convocati in orario mattutino (forse qualche attenzione in più si sarebbe potuta avere nei confronti di questa categoria), le prove invalsi, vissute ancora più osticamente degli anni scorsi per “ovvi” motivi, si è detto. Infine gli esami in presenza con “classiche”, ormai, richieste da parte di coloro che proprio ne farebbero a meno, li eliminerebbero perché antichi e sorpassati, dicono, da tempi sempre più superficiali. In mezzo c’è stata l’illusione delle classi sdoppiate, dei banchi monoposto per settembre, arrivati poi in autunno inoltratissimo, la richiesta di far frequentare i ragazzi diversamente abili in presenza, ma in collegamento con i compagni da casa con gruppo eventuale di compagni in presenza per garantire inclusione che altrimenti non ci sarebbe stata. 

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A ciò si aggiunga una linea telefonica millantata in gran parte d’Italia per fibra che prometteva faville e invece è diventata un vero e proprio vulnus. Per non parlare poi dei gestori che proprio in quei giorni offrivano tariffe vantaggiose e imperdibili che hanno portato alla sospensione anche per un mese del servizio erogato ad alcune famiglie. Si è trattato di un anno che eufemisticamente definiremmo travagliato e variegato. Sono cose che tutti sappiamo. Le ripeto solo perché mi ci ha fatto pensare in questi giorni un intervento dello scrittore Alessandro Baricco, ma ne potrei scegliere tanti altri con lo stesso effetto. Se l’è presa con la didattica a distanza. “Il difetto principale – sottolinea Baricco – è stato riversare su uno strumento limitato, il computer, quello che facevi in classe. Quando ho visto che mio figlio faceva educazione fisica in Dad come se niente fosse ho capito che c’era qualcosa che non andava. Colpa anche nostra, dei genitori. Quando vedevamo i nostri figli andare a scuola, restando in camera, per cinque o sei ore davanti a uno schermo, non ci siamo chiesti perché lo consentissimo quando per una vita abbiamo detto loro di non stare attaccati al computer”. Perché non sono intervenuti i genitori? E cosa avrebbero potuto fare? Secondo Baricco: “Era evidente che c’era da fare una roba tipo: ok, non più di tre ore in Dad, il resto del tempo facciamo altro, ci inventiamo qualcosa, altri modi di studiare ma non al computer. Ma che vita è tutto il giorno davanti a uno schermo? Infatti moltissimi hanno smesso. Smesso di andare a scuola”. Questi ragazzi sarebbero stati colpevolizzati e questo dimostrerebbe, secondo lo scrittore, che “siamo educatori con tanti difetti”, ma questo lo sapevamo già, che la scuola va cambiata (anche questo l’ho già sentita) perché “questo è un sistema destinato a collassare. La pandemia ha dato una grandissima spallata. I nostri figli andranno ancora in questa scuola. I loro figli no”.

D’accordo, forse, ma davvero non abbiamo imparato nulla durante l’ultimo anno? Davvero i nostri ragazzi non sono cresciuti? Davvero è stato tutto sprecato? Si è trattato di una grande fake news secondo la quale la scuola è rimasta aperta e non si è fermata? Alla fine dell’anno, la stanchezza che avverto e che vedevo negli occhi degli studenti mi dicono altro. Si è trattato di un anno in cui in moltissimi abbiamo dato fondo a tutte le risorse disponibili. Tutto inutile? Mentre mi arrovello in queste domande sono arrivati alla fine gli esami. Diversi dagli altri anni, manco a dirlo. Reinventati con corollario di novità valutative da escogitare e mettere a punto come per quasi tutti gli ambiti della scuola degli ultimi due anni. Iniziamo. Si siede il primo, poi il secondo e tutti gli altri docenti rigorosamente distanziati. Studenti con al più un accompagnatore. Niente festa di gruppo. Tensione uguale, tuttavia, e energia immutata: è bellissimo vedere da questi ragazzi che alla fine del primo ciclo e del secondo ciclo tirano fuori conoscenze, abilità, energie che non avremmo immaginato. Sorprendenti. E sono loro i primi a sorprendersi, in positivo. C’è motivo di credere che la vita sia passata anche attraverso questi algidi ed asettici canali digitali. Il prima possibile elimineremo la didattica a distanza nelle forme degli ultimi tempi, ma il suo dovere di rattoppo temporaneo lo ha fatto bene. Lo vediamo agli esami. 

Succede, poi, che proprio in questi giorni mi imbatta in due scritti che mi solleticano. Il primo è di Maria Montessori. Ne riporto solo una citazione breve. “Il più grande segno di successo per un insegnante è poter dire: i bambini stanno lavorando come se io non esistessi”. La Montessori non poteva immaginare quello che abbiamo vissuto e quando ha scritto “La casa dei bambini” non avrebbe minimamente ipotizzato che un giorno la scuola potesse essere letteralmente la casa degli studenti. Però la sua idea del ruolo dell’insegnante come colui che suggerisce e non impone, in questo tempo sarebbe stata accolta con ancora maggior favore. Il tutto parte dal concetto di mente assorbente: la mente degli alunni è una sorta di spugna che riesce, con facilità, ad assimilare in modo inconscio. Da questo presupposto l’apprendimento non è qualcosa che al bambino deve essere “imposto”, ma un qualcosa verso cui deve essere indirizzato e verso cui deve muoversi senza forzatura. Questa idea mi riporta al secondo scritto in cui mi sono imbattuto negli ultimi giorni: la parabola del seme gettato raccontata nel Vangelo di Marco al capitolo 4: “Come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura”. Mi perdonino i puristi esegeti del testo sacro se sembrerà che si stia torturandolo. Ovviamente Gesù parla alla folla, a quanti attendono con comprensibile premura il manifestarsi del Regno, parla ad un popolo che attende eventi clamorosi. La sua parola, come sempre, non accarezza i loro desideri, anzi li invita a modificare radicalmente le loro attese. Paragona il Regno – e quindi la sua stessa missione – al granello di senape, il più piccolo fra tutti i semi. Qualcosa di insignificante agli occhi umani. Esattamente come è diventata la formazione scolastica agli occhi della maggioranza dei genitori. Una volta si chiedeva al figlio di studiare per trovare il proprio posto nel mondo. Lo si fa ancora oggi? Docenti e genitori, da una parte e dall’altra della cattedra, hanno ancora questa consapevolezza? Gesù invece sceglie l’immagine della piccolezza e invita così i suoi discepoli a non inseguire sogni di successo, il lavoro di un insegnante non s’impone con forza e non si misura con il consenso popolare. Al tempo stesso, tuttavia, con uno sguardo colmo di speranza, la parabola ci ricorda che quel piccolo seme “cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto” (4,32). Ciò che è piccolo diventerà grande. In altre parole, sia pure gradualmente, il risultato del lavoro di un insegnante troverà spazio nei cuori e nella società. Tutto questo però avviene solo se il seme viene gettato nella terra. 

Qualcosa di questa dinamica s’intravede agli esami quando ti arriva il ragazzo che per tutto il tempo scolastico ti era sembrato apatico, distante, avulso e, invece, in quella situazione, mostra i frutti insperati di un lavoro che avevi considerato “a perdere”: questo ci porta a contemplare l’immagine del seme nascosto. Agli occhi degli uomini sembra tutto perduto. Il seme chiama in causa la nostra vita. Siamo noi il seme gettato. Agli occhi del mondo la nostra vita e il nostro lavoro possono apparire inutili e privi di valore, possiamo essere considerati addirittura stolti. Questa parabola è diversa da quella del seminatore. Ogni parabola ha la sua finalità, contiene un proprio messaggio. Quella del seminatore sottolinea le difficoltà e gli ostacoli che impediscono al seme di portare frutto. Quella che stiamo prendendo in considerazione, invece, invita i discepoli a seminare con la certezza che quest’opera non è vana. Cioè invita noi docenti, in questa mia personalissima rilettura, a continuare a spenderci pienamente in questa nostra missione. Si tratta di un messaggio particolarmente importante nel nostro tempo. La parabola inizia con l’immagine dinamica di un uomo che getta il seme. Ecco ciò che fa della storia il luogo in cui ognuno di noi agisce: la disponibilità del seminatore permette a tutti di compiere la sua opera. Ma questo mi permette di dire anche un’altra cosa ai colleghi abbattuti: dobbiamo avere la certezza che abbiamo qualcosa di importante da dire. La perdita della centralità della vita scolastica percepita nella società spesso finisce col riverberarsi anche nelle nostre coscienze. Può succedere, e nei fatti succede a molti docenti, di cominciare a vedere in maniera sminuita il proprio ruolo e le cose che si hanno da dire. Il mondo sembra andare altrove, ma questo non vuol dire che ciò che insegna la scuola sia meno importante. Forse lo è maggiormente. Ritirarsi, rinunciare non è altro che fare un favore all’ignoranza. Dobbiamo invece continuare con la certezza che quella nostra opera è fondamentale. 

La parabola si sofferma sull’agire nascosto del seme. Dice Gesù: “Dorme o veglia, giorno e notte, il seme germoglia e cresce”. Come fa notare qualche esegeta, il seme ha una sua forza e non importa quale siano le condizioni esteriori, non importa neppure se l’uomo (il ragazzo, l’alunno, lo studente) è cosciente o meno. Il seme germoglia e cresce, indipendentemente dalle vicende che certamente hanno un peso e possono condizionare. Se tutto fosse nelle mani dell’uomo dovremmo misurare ogni cosa con le forze dell’uomo. Ma dal momento che non tutto è nelle mani nostre, non siamo in grado di misurare quello che accade. La notte fa pensare al tempo in cui l’oscurità avanza, il tempo delle prove, mentre il giorno rappresenta il tempo in cui la vita è tutta avvolta nella luce. L’anno scolastico trascorso farebbe pensare alla notte in cui il seme sembra giacere inerte. Se abbiamo la certezza che quel seme non è perso, possiamo custodire la speranza in ogni circostanza della vita e della storia. La frase “come egli stesso non lo sa” sembra indicarci proprio che colui che semina non sempre ne comprende la portata. Chi semina deve soltanto farlo in obbedienza, non pretendere di capire, cosicché le prove che ai nostri occhi possono sembrare un impedimento, possono diventare un’esperienza feconda, sicuramente più di quella in cui a noi sembra di aver raggiunto un successo. Chi lo sa che magari proprio l’esperienza della didattica a distanza non abbia generato qualche frutto che noi oggi non riusciamo a vedere! Potrebbe essere questa una possibile risposta alle sollecitazioni di Baricco. A volte diamo importanza a eventi o persone che ci sembrano adeguate, capaci, impegnate e invece la storia si serve di altre vicende. Gli esami di questi giorni mi stanno insegnando esattamente questo. Quello che però dobbiamo cercare di fare, è collaborare, fare fino in fondo la nostra parte. “Il terreno produce spontaneamente lo stelo, la spiga e poi il chicco pieno nella spiga.” Tre tappe nella maturazione. Il Regno (la persona, il ragazzo) cresce gradualmente tanto nella storia quanto nel cuore dell’uomo. Infine una sollecitazione che mi arriva da un sacerdote e che giro a tutti noi. Riguarda due possibili atteggiamenti rispetto ai frutti del lavoro che facciamo. Noi vogliamo subito misurare gli esiti, valutare i risultati, siamo uomini del nostro tempo. Invece non dobbiamo avere fretta di vedere i frutti e non dobbiamo mai perdere la speranza di vedere i frutti. Non mancheranno: questa fiducia è fondamentale per custodire la fedeltà ed esercitare la propria missione anche quando abbiamo ragionevoli motivi per pensare che tutto sia inutile. Forse non saremo nemmeno noi a vedere quei frutti, ma ci saranno. Questa certezza ci deve sostenere nelle giornate di routine scolastica quando sembra che niente abbia un senso e che, personalmente, mi ha sostenuto durante la didattica a distanza quando dall’altra parte, soprattutto verso la fine, incrociavo occhi che tendevano a spegnersi. Facciamo interamente la nostra parte proprio per dare a tutti la possibilità di compiere la propria parte. Ciò che è piccolo diventerà grande. Tutto questo però avviene solo se il seme viene gettato nella terra. Seminare, dunque. Seminare. Seminare.




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