Scuola

di Piero del Bene, insegnante

A che cosa serve superare l’anno scolastico se poi non hai le competenze?

11 Maggio 2021

studente

Agli occhi dei nostri giovani è ancora necessaria la fatica? Nella società degli avatar da mandare in giro in propria vece, forse l’unica cosa che conta è l’immagine, ma dove è finito il piacere della conquista? Due mondi della scuola confronto e il gusto di una vita piena e migliore che i nostri studenti hanno perso.

Questa è la storia di due mondi contigui ma distanti, prossimi eppure lontanissimi. Questa è anche la storia di un dono in via di dispersione. Nel primo di questi mondi, quello ritenuto più avanti, succede che, per esempio una figlia chieda alla madre di non andare a scuola il giorno dopo perché ci saranno le interrogazioni. Quasi tutti i compagni non andranno perché temono di “sporcare” la media dei voti conquistata nel periodo della didattica digitale. La mamma consiglia alla figlia di andare perché le sembra più giusto così. “Ma non ci sarà nessuno dei miei compagni”, ribadisce la figlia: perché dovrebbero andare solo lei e la compagna? La domanda mette in difficoltà la madre. È sicuramente la cosa giusta da fare, andare, ma in queste condizioni, solo lei e la sua amica, che senso ha? La figlia deve fare i conti con la sensazione di sentirsi anche molto in minoranza. Nella testa di un adolescente la convinzione di fare una cosa giusta diventa meno solida (fino quasi a scomparire) se è diluita in una stragrande maggioranza di coetanei che agiscono diversamente. Ai tempi dei likes sui social, un’azione sbagliata, ma fatta in massa, diventa giusta. Se una classe, in modo compatto, non si presenta a lezione, gli assenti si sentono meno colpevoli e i presenti si sentono meno convinti della giustezza della loro scelta di andare. E la madre? La nostra madre crede che aver suggerito alla figlia di andare sia la cosa giusta, ma anche in lei sorgono dubbi. 

Ne parla anche per sfogarsi, ad un gruppo di amici, tra i quali c’è qualche insegnante. Una le risponde, riportando il suo punto di vista, quello di chi vede il mondo dall’altra parte della cattedra. “Pensa a come si deve essere sentito il docente – dice alla mamma –  nel vedere solo due ragazze presenti in classe! Che grande senso di realizzazione deve aver provato?”. L’ironia è, in questo caso, una forma di compassione per il collega. Per completare il quadro, aggiunge poi che probabilmente la stragrande maggioranza dei genitori di quella classe produrrà una giustifica fittizia adducendo motivazioni non reali, pur sapendo il vero motivo di quell’assenza. Qualcuno dei genitori farà anche notare al figlio che l’azione è sbagliata, si farà promettere che non accadrà più, ma firmerà la giustifica. Ad essere sotto accusa è l’alleanza scuola-famiglia, evidentemente e la divergenza sempre più ampia tra gli obiettivi che le due istituzioni prospettano ai giovani che hanno in comune. Si tratta di una fuga dalle responsabilità innanzitutto genitoriali e poi trasmessa ai figli. Ovviamente non si parla qui di tutti in maniera indifferenziata. Il fenomeno è, tuttavia, in crescita e nasce già alla scuola del primo ciclo, primaria e secondaria di primo grado. Le piccole giustificazioni del bambino crescono assieme a lui e alla secondaria di Secondo Grado diventano quasi ingestibili. In questi giorni, ad esempio, mi è stata data l’opportunità di sentire un audio di un ragazzo liceale che asseriva di doversi esimere dal compito in classe perché esonerato dal docente che avrebbe detto (a lui come ad altri) di non presentarsi per non rischiare l’anno.

La domanda che ci siamo posti, subito dopo aver ascoltato, è a che cosa serve superare l’anno se poi non ne hai le competenze significate dalla promozione? Ma nella società dell’immagine, degli avatar da mandare in giro in propria vece, forse questo sta diventando un problema secondario. Se l’immagine è vincente, a chi interessa che la sostanza delle competenze non lo sia altrettanto? Una chiave di lettura mi è stata offerta dai racconti di nostra figlia che, negli stessi giorni, ma a latitudini più prossime all’equatore, esplorava il mondo degli studenti del Burkina Faso. La visione delle numerosissime biciclette parcheggiate fuori ad un liceo l’aveva colpita. Erano di ragazzi, più maschi che femmine, per motivi sociali, che ogni giorno si fanno anche alcune ore di cammino per raggiungere scuola e poi casa. Non hanno libri. Studiano dagli appunti. Per fare in modo da prenderne di più, si raccolgono in gruppi di quattro o cinque fino a notte intorno ad una delle numerose lavagne illuminate predisposte dall’Associazione Progetto Famiglia Cooperazione. Spesso con un solo pasto al giorno da farsi bastare. Mossi dalla speranza che la formazione e lo studio possa offrire loro prospettive di vita migliori. 

Leggi anche: Cosa si chiede ad un docente?

Poi, mentre ragiono, arriva la terrificante notizia degli attentati a Kabul, dove auto bombe fatte esplodere mentre le alunne di una scuola uscivano, hanno causato decine di morti. Mondi diversi, si dirà.

Cosa hanno in comune i due mondi? Fatti i dovuti distinguo, a ben vedere, questi posti così lontani e diversi tra loro, qualcosa di comune lo hanno: le opportunità di sviluppo personale e la voglia di garantire a tutti i giovani almeno una possibilità. Nel nostro mondo, la scuola è anche un diritto-dovere. Negli altri assume più la connotazione di un’opportunità. Cosa è diverso nei due mondi? La fame. In tutti i sensi (di vita, di conoscenza, di pane). Le ragazze afgane e i giovani burkinabè hanno fame, oltre che di cibo, di cultura, formazione, riscatto, scalata. I nostri, frequentemente, sono sazi e succede così che lo studium (parola latina da tradurre e far comprendere coi significati di amore, zelo, passione, piacere) diventi un obbligo da accettare anche con sofferenza. Forse la scuola dell’obbligo comincia ad avere proprio la controindicazione di essere dell’obbligo e non più studium, attività di piacere. Ovviamente l’obbligo scolastico è una conquista, ma nel nostro mondo va ricompresa e riconsiderata. Non è saggio lasciare oscurare questa opportunità da un suo aspetto, la valutazione, che ne sta occupando, negli ultimi anni, tutto lo spazio nella mente di docenti, alunni e genitori.

La questione è molto più complessa, ovviamente, e sconfina anche nell’ambito della sociologia. Probabilmente è un problema del mondo che si crede più avanti, che sta allevando giovani sempre meno attaccati al proprio sviluppo personale. Fatte, ovviamente, le dovute proporzioni. Le nostre aule sono comunque popolate anche da ragazzi eccezionali. Affidiamo la conclusione di questa riflessione ad alcuni pensieri tratti proprio da un saggio di natura psico-sociologica: Sazi da morire, di Claudio Risè, libro in cui viene raccontata la più diffusa malattia dell’occidente, definita come “un continuo oscillare dal delirio di onnipotenza e della volontà di godimento illimitato a una sostanziale impotenza e depressione”. Secondo la tesi del libro, le persone del nostro tempo e del nostro mondo si ammalano, perché nell’ansia di soddisfare la pulsione dell’istante, viene messo da parte il grande regolatore degli istinti quello che i greci chiamavano Anànche, dal nome della dea del limite. Forse che i nostri giovani abbiano dimenticato il ruolo centrale della necessità?  “Quando la necessità viene dimenticata compare il suo contrario: l’esonero, più o meno forte e pronunciato, dalla fatica fisica, che non viene più vista come un aspetto fisiologico della vita umana, indispensabile per lo sviluppo della personalità, ma come una tremenda maledizione”. E così, “mentre i media tempestano col mito del robot che ti porta la colazione a letto, chi ha più senso vitale torna a farsi il pane”. Ci sarà più spazio per questo senso vitale? Qualche giorno fa un mio alunno mi chiedeva che senso avesse continuare ad andare a scuola quando ormai si sa che presto ci verranno impiantati microcircuiti che ci daranno conoscenza. Ecco il nocciolo della questione: agli occhi dei nostri giovani è ancora necessaria la fatica? Ci sarà ancora qualcosa da conquistare? Se sì, allora il dono dell’istruzione non si perderà. 




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1 risposta su “A che cosa serve superare l’anno scolastico se poi non hai le competenze?”

Questo è quello che penso e che cerco di combattere
Purtroppo l’apparenza e l’esteriorità predomina
Sei bravo se prendi un buon voto,non importa se hai capito quello che hai studiato.È quello che succede a mia figlia,affiancata dal professore di sostegno.lei ha tanta voglia di imparare ,si entusiasma quando capisce che l’argomento di cui si parla corrisponde alla realtà che vive
Quest’anno scolastico in dad ha allontanato mia figlia dagli obiettivi raggiunti negli anni precedenti,il prof si è permesso di consigliarle di prendere la presenza e di potersi allontanare,e così ha fatto,col prof si collega solo per l’interrogazione o per un compito
Ora cellulare, tablet,televione sono diventati i suoi alleati,suoi amici,non riesce a farne a meno,a scuola va volentieri,le piace credere che le perso e attorno le siano amiche,i video che vede sono pieni di storie di amicizia,purtroppo non è così
I compagni le sono vicini quando lei si allontana col muso lungo ma poi non la calcolano, non la invitano ad uscire con loro
la diversità crea ancora distanziamenti e pregiudizzi anche in ambito scolastico

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