“Mio figlio ora era un padre che lottava per salvare il suo bambino dall’aborto”

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Che importanza ha la voce del padre nella questione dell’aborto? La storia di oggi è la testimonianza di un giovane uomo che tenta di strappare la vita di suo figlio dalle fauci dell’aborto: 48 ore, poi l’ospedale, una pillola e… l’oblio.

Questo mese voglio lasciare il mio “spazio bianco” alla voce di una donna che ho conosciuto che ha una storia da raccontare. Le ho chiesto di scrivere per me la sua esperienza di amore e di dolore. Lo ha fatto. La chiamerò Rachele, un nome di fantasia.

“Scrivo questo mio contributo con la speranza che possa costituire una piccola luce accesa tra le tante che cercano di illuminare le tenebre mortifere provocate dalla pratica dell’interruzione di gravidanza. Ho da sempre respinto questo atto nel mio cuore e nella mia testa, a partire dalla terminologia, perché è evidente che si ha a che fare con un atto ben più grave di una generica interruzione. Ho assistito sin da bambina alle manifestazioni delle femministe che richiedevano la sua approvazione e, in seguito, incontrato donne di svariate età che vi erano ricorse e sempre più, in me, si è rinforzata una totale opposizione diventata viscerale.

Sono poi diventata mamma di due figli maschi M. e A. che ho educato all’amore, alla cura della vita e al rispetto per la donna che ne diventa la custode preziosa nel proprio grembo. Ho prestato molta attenzione alla loro educazione all’affettività, comunicando loro che, qualora si fossero trovati nella condizione di una gravidanza inattesa, non solo sarebbero stati chiamati a compiere il proprio dovere in quanto padri e compagni della madre del bambino, ma che sarebbe potuto capitare loro di subire la scelta di quest’ultima senza poter aver voce in capitolo poiché la Legge non tutela né il bambino né il padre. Confidavo sulla loro serietà e speravo che avrebbero vissuto la propria vita sentimentale in maniera matura e quindi ordinata, con responsabilità. Ciò non è avvenuto e mi trovo qui a scrivere perché la nostra esperienza possa destare le coscienze e contribuire a ricordare che il dramma dell’aborto non coinvolge unicamente la madre, ma il bambino stesso, il padre, i nonni e le persone che vivono loro accanto.

Una sera di marzo

Una fredda sera di marzo di una settimana particolarmente intensa mio figlio M. mi scrive che rincaserà presto e mi avvisa, con voce agitata, che mi deve comunicare due notizie: una buona e una meno. Non ho la minima idea che la mia famiglia sarà investita da un dolore tremendo. Si tratta del mio primogenito, ventunenne, ragazzo studioso, maturo, attivo in un percorso in un Movimento Ecclesiale, alle prese con la sua prima relazione sentimentale da circa un anno con C., una ragazza che pare presentare simili requisiti e che risiede a Roma, quindi assai distante da casa nostra. Recentemente, io e lui non siamo riusciti a ritagliarci del tempo insieme a causa dei rispettivi impegni. 

Al telefono M. mi ha precisato la sua intenzione di parlarmi in privato quindi mi precipito fuori dalla porta di casa e, al suo arrivo, così senza tanto pensarci, ci ritroviamo seduti a metà della rampa delle scale, io con il mio pigiama rosa, lui, con il suo cappotto grigio. È agitato, io lo fisso negli occhi e gli domando semplicemente se la ragazza sia in attesa di un bambino. Lui annuisce. Così vengo a sapere che M., il mio primogenito, ragazzo solidissimo che non ha mai combinato un guaio in vita sua, ritenuto peraltro sterile da fior di specialisti, sarà padre. L’emozione è più forte della delusione, ma la devo reprimere. Lui si scurisce in volto e, con la voce rotta dalle lacrime mi confida che C. non intende assolutamente saperne di proseguire la gravidanza! Lo abbraccio e lo incoraggio, esortandolo a prendere al volo il primo treno diretto a Roma per recarsi da lei ed incoraggiarla, farla sentire protetta, al sicuro ed amata, prospettandole, magari tutte le possibili soluzioni che entrambi possono approntare per accogliere degnamente la creatura. Mi chiede di comunicarlo al padre, lui è in imbarazzo al solo sostenere il suo sguardo.

È spaventatissimo, mi ripete che la ragazza pare diventata come di ghiaccio, irremovibile. Prepara una valigia piena di cambi: non ha intenzione di tornare a casa prima che lei si tranquillizzi. Io lo guardo con il cuore a pezzi e lo stomaco stretto da una morsa che non mi lascerà più per giorni, d’accordo che, in qualunque momento, io e mio marito saremo pronti per raggiungerlo. Dopo un’ora circa siamo tutti a dormire; sento che è a pezzi, mi alzo e mi sdraio nel suo letto a fianco a lui. Non capitava da quando era bimbo e, malaticcio, veniva qualche ora nel lettone per trovare coccole e protezione. Questa notte posso dargli solo questo conforto. Gli accarezzo timidamente i capelli castani e prego il Signore di non lasciarlo solo. Di colpo non è più uno spensierato studente universitario, ma un padre che ha la missione di far vivere il proprio figlio. Mi addormento realizzando che ho quarantotto anni e sono nonna. Eppure, non posso essere felice, anzi, devo essere forte per trasmettere coraggio a mio figlio che cerca, invano, di riposare. Appena partito inizio la mia attività di sostegno a distanza. Contatto subito B., volontaria di un Centro Aiuto alla Vita, supplicandola di fornirmi consigli e la metto immediatamente in contatto con lui. Siamo entrambi consapevoli che un giusto approccio, rispettoso della sensibilità e delle paure della ragazza potrebbe essere fondamentale per aiutarla ad affrontare e superare ciò che per lei rappresenta un trauma. Effettuata una prima scrematura tra i contatti telefonici fornitomi da B., li inoltro a M., che, nel frattempo è arrivato a destinazione. 

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Da questo momento in poi, lo sento, sempre velocemente, nei rari momenti in cui è da solo, spesso chiuso nella toilette o nel giardino di casa della famiglia d’origine della fidanzata. Attendo che sia lui a telefonare. I miei stati, le mie speranze, dipendono esclusivamente da quanto percepisco di volta in volta dal tono della voce di mio figlio. Capiamo subito che la situazione è disperata: la mamma di C. sostiene che non intende influenzare la ragazza, ma la porta a sottoporsi ad una visita da un’ostetrica abortista che la indirizza ad un consultorio accompagnata da M.; C. si sottopone alla prima ecografia che accerta la settimana di gravidanza. La ginecologa si comporta in maniera meccanica, parla di problema da risolvere alla svelta, non permette che i due ragazzi possano vedere il bambino né sentire il suo battito cardiaco e cerca di mettere fretta alla mamma in attesa, invitandola già l’indomani per sottoporsi all’utilizzo della RU 486. 

48 ore…

M. tenta invano di spiegare che, in quanto padre del bambino è, e sarà sempre presente, che ha già in mente di come organizzarsi nel futuro, ma è evidente che nessuno là dentro intende dargli retta. C., dal canto suo, appare determinata ad andare in fondo, nonostante M. stia sempre accanto a lei, nel tentativo di rassicurarla e di farle percepire la propria presenza e la reale possibilità che entrambi accolgano il dono della vita e diventino due genitori, prospettandole svariate ipotesi di soluzione, supplicandola fino alle lacrime di non uccidere la loro creatura. Egli accede di nascosto al referto ecografico e fotografa tramite il telefonino l’immagine del bimbo; sarà questa l’unica fotografia di cui disporremo, ricordo tangibile della sua brevissima vita. Nel frattempo, io e lui decidiamo di praticare una scrematura dei recapiti telefonici ottenuti perché abbiamo necessità di ricevere i preziosi supporti in maniera più semplice e diretta. Scopriremo in seguito che la persona che mi sosterrà a distanza, L., è una delle più care amiche di E., che è colui che M. ha prescelto come proprio angelo custode. Il terzo giorno ci illudiamo: prima di uscire diretta all’ospedale C. cambia idea, è esitante, inizia ad immaginare la possibilità di affrontare la gravidanza. M. ha ancora quarantotto ore a disposizione per cercare di scalfire il muro di ghiaccio che lei si è creata intorno. I genitori della ragazza non permettono si possa parlare apertamente della questione in famiglia, mentre comincia ad essere evidente che la nonna materna, subdolamente, stia condizionandone la scelta. Tutti fingono non stia succedendo nulla, mentre M. lotta come un leone per cinque giorni nella speranza di difendere la vita del proprio figlio. Io e mio marito veniamo ripetutamente dissuasi dai volontari che ci supportano dal recarci a casa loro, perché ritengono che il nostro intervento possa far precipitare gli eventi: la ragazza potrebbe sentirsi accerchiata e poi compiere l’atto che intendiamo scongiurare. 

La vita appesa ad una pillola

Il quarto giorno, M. mi chiama in lacrime, disperato. Io e mio marito accorriamo da lui; la ragazza ha deciso che l’indomani si recherà in ospedale per assumere la pillola abortiva. Nel frattempo, una rete di amici, sacerdoti, religiose, prega incessantemente per questa situazione drammatica. Arrivati a notte fonda, speriamo ancora in un ultimo ripensamento, ma il mattino successivo veniamo chiamati da nostro figlio. Lei è appena entrata in ospedale determinata ad andare fino in fondo, mentre mio figlio l’ha supplicata in lacrime di non uccidere il loro bambino, consapevole che se lei andrà in fondo, egli non potrà più rimanere al suo fianco. Lo trovo lì, all’esterno della struttura sanitaria, con l’intenzione di riportarlo immediatamente a casa, lontano da quell’orrore, invece lui preferisce attendere. Spera ancora in un ripensamento e non intende partire finché non abbia appreso della avvenuta assunzione del farmaco. C. prende la pillola abortiva. Nelle ore successive M. cercherà ugualmente un ravvedimento della ragazza, avvisandola che è ancora in tempo per ricevere ormoni antagonisti che bloccherebbero il processo di soppressione del bambino, ma invano. 

Generati per la vita eterna

Due giorni dopo, tramite un laconico messaggio di C., M. apprende che è tutto finito. Nonostante la disperazione totale che proviamo in famiglia, avvertiamo subito una grazia sovrannaturale scaturita dalle preghiere di quei giorni: ci rendiamo conto che non proviamo odio nei confronti della ragazza e della sua famiglia, ma una cristiana pietà. Tantissime persone si stringono intorno a M., sostenendolo e apprezzandone il coraggio e la determinazione. Io e mio marito ci scopriamo fieri di questo ragazzo, improvvisamente divenuto uomo, con una coscienza retta e capace di ascoltarla. Il suo padre spirituale e una psicologa esperta nella rielaborazione del lutto lo aiutano nella ricostruzione di sé. Da parte mia, cerco di parlare poco e di accoglierlo semplicemente tra le mie braccia le volte in cui crolla, mentre sento la ferita grondante nel cuore. Torniamo alle nostre attività quotidiane, io al mio insegnamento e lui allo studio universitario.

Sono docente di Religione Cattolica in un Liceo e immagino, in un primo momento, che non sarò più in grado di affrontare in classe il tema con la dovuta lucida serietà, ma M. mi sprona a proseguire; lui stesso si renderà poi disponibile a parlare in pubblico ed in privato della sua vicenda, nella convinzione che la conoscenza della sua storia possa essere utile a chi si trovasse nella medesima situazione. Io stessa, pur consapevole che questo dramma mi accompagnerà ogni istante della mia vita, comprendo rapidamente che, il messaggio a tutela della vita nascente che tento di trasmettere quotidianamente, acquisterà più forza, proprio tramite la mia testimonianza vissuta. Il mio nipotino, Paolo, come è stato chiamato da M. ci aspetta in Cielo ed io persevero nel dare voce anche a lui che non ha potuto averla, nella ferma convinzione che dal male bisogna sempre trarre il bene.




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