Scuola

di Piero Del Bene, insegnante

Cosa si chiede ad un docente?

14 Aprile 2021

Si chiede all’insegnante di tirare gli alunni fuori dall’abisso in cui stanno sprofondando nell’intimo delle loro camerette riadattate ad aula DDI. Mi si permetta solo di ricordare che anche moltissimi insegnanti vanno afferrati mentre sprofondano perché essi stessi bisognosi di un’overdose di affetto. Tutti sulla stessa barca, quindi. E allora?

Il caso recentissimo dell’insegnante di un liceo che costringe l’alunna all’interrogazione in didattica digitale ad occhi bendati per non permetterle di sbirciare gli appunti apre molti squarci verso più di una riflessione. Uno per tutti: la valutazione è tanto importante da “nascondere” il volto del valutato? Gli accertamenti sul caso sono ancora in corso e dunque lo trattiamo solo come spunto per avviare una riflessione. Parleremo del vedere gli alunni affinché essi vedano meglio la vita ed il mondo. La questione, in fondo, è sempre la stessa: cosa deve fare la Scuola? Cosa dovrebbe fare la Scuola? Per cosa esiste? Riempire gli alunni di nozioni? Aiutarli a crescere? Qual è il suo scopo? Fin dove ci si può spingere con certe manifestazioni? In parole semplici: cosa vuole l’Italia dalla sua Scuola? Si tratta di una domanda ben diversa dall’altra: cosa vorrebbe ciascun cittadino dalla Scuola? I due piani, quello statale e quello personale, spesso, si sovrappongono, ma sono ben distinti. Dunque, al netto di ogni idea personale, cosa dovrebbe fare quell’uomo o quella donna che si trovano dal lato adulto della cattedra? Qual è il compito della scuola? 

Non sembrino domande banali o scontate. La questione è assai più complicata di quanto possa apparire. Rifletto su questo tema da quando, qualche giorno fa, il nuovo Ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, in un’intervista ha affermato: Noi lavoriamo per una scuola affettuosa, una scuola per costruire l’affetto per gli altri e la socialità.” Continuando, ha spiegato meglio: “A scuola, dopo anni di individualismo, bisogna tornare ad una scuola di affetti di socialità. La scuola per la quale stiamo già lavorando in questi mesi è una scuola che permetta ai ragazzi di affrontare la complessità del mondo, che abbia la capacità di affrontare cose drammatiche insieme”. Una prima considerazione che si può fare sta tutta nella domanda: ma, allora, finora la Scuola non lavorava per costruire l’affetto? E poi cosa significa scuola dell’affetto? Sembra di capire che il Ministro usi la parola affetto per intendere una certa socialità che si starebbe affievolendo e gli episodi di violenza urbana in tempo di pandemia e lockdown con protagonisti i giovani potrebbe esserne un segnale. Un Dirigente scolastico, Manfredo Tortorello, in una lettera aperta indirizzata al Ministro, è stato più esplicito: è il momento di spiegare cosa si intende con “scuola affettiva”. Poi, nello stesso scritto, ha chiarito: “Oggi serve un messaggio che ricordi ai docenti il loro ruolo di educatori, di formatori, di uomini e donne che accompagnano la crescita dei loro alunni e alunne”. A parole è tutto molto bello e lineare. Poi però, queste belle intenzioni si scontrano con le visioni personali di genitori e docenti che spesso confliggono. Allora si può incontrare il genitore che chiede al docente di limitarsi ad insegnare a far di conto e leggere e scrivere che al resto pensa lui, ma si può incontrare anche quello che delega l’intera educazione del figlio alla Scuola. Anche tra i docenti esistono molte posizioni diverse. Esistono, per esempio, coloro che insegnano per formare anime e coloro che avvertono di avere l’unico dovere di spiegare bene il teorema di Pitagora e che il problema non è suo se poi l’alunno lo userà per delinquere! 

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Il Dirigente Tortorello continua invocando delle “linee guida che ricordino ai e alle insegnanti di parlare ai cuori dei ragazzi e delle ragazze e non solo ai loro cervelli” perché oggi più che mai “siamo tutti impegnati a salvare una generazione e che la scuola di questi giorni deve essere fatta di ascolto, dialogo, riflessione e non solo essere il luogo per dimostrare una bella prestazione scolastica”. Le ultime linee guida risalgono, infatti, al 2012, quasi un decennio fa. Parlavano di aiutare a dare senso alla varietà delle esperienze degli studenti, fornire supporti per sviluppare un’identità consapevole e aperta, formare saldamente ogni persona sul piano cognitivo e culturale, realizzare percorsi formativi sempre più rispondenti alle inclinazioni personali degli studenti. Tutto questo è ravvisabile nell’affetto di cui parla il Ministro o siamo davvero di fronte ad una concezione nuova di scuola? E se sì, gli insegnanti sono pronti? Qualcuno arriva a proporre loro la missione di fornire “un orizzonte di speranza e non solo esprimere un giudizio sul comportamento o assegnare un voto al compito in classe o all’interrogazione”. Si chiede all’insegnante di tirare gli alunni fuori dall’abisso in cui stanno sprofondando nell’intimo delle loro camerette riadattate ad aula DDI. Mi si permetta solo di ricordare che anche moltissimi insegnanti vanno afferrati mentre sprofondano perché essi stessi bisognosi di un’overdose di affetto. Tutti sulla stessa barca, quindi. E allora?

Da qualche giorno ho finito di leggere l’ultima fatica letteraria di Alessandro D’Avenia, il romanzo L’appello. Tratta di un anno scolastico in una classe di alunni considerati derelitti dell’ultimo anno di un istituto superiore. Le sorti di quel manipolo di problemi esistenziali (leggere per credere!) svolta quando al bivio arriva un docente cieco che per conoscerli e “vederli” comincia a fare uno strano appello, durante il quale questi ragazzi vengono allo scoperto e si percepiscono “visti”. Su questo paradosso del docente cieco che vede gli alunni si gioca tutta la trama. Lo sfondo è una scuola ricca di persone al posto sbagliato, nel bene e nel male, che si confrontano sul tema che stiamo affrontando declinato dall’altro versante: a cosa serve la scuola per un ragazzo, soprattutto se difficile? La vicenda al contempo verosimile e paradossale arriva fino ai piani alti delle istituzioni. L’autore del romanzo la utilizza per esporre la sua idea di scuola. Non c’è l’obbligo, insegnanti, docenti e professori si chiamano Maestri che vengono scelti dai ragazzi e a cui viene versato uno stipendio che permetta di vivere senza fare un secondo mestiere. Non ci sono compiti e interrogazioni a sorpresa, sono aboliti i banchi, le aule non hanno le porte, la vita del maestro si mostra in ciò che insegna, il modo in cui lo fa e la cura per coloro a cui insegna. Ogni studente ha un docente tutor che lo segue. L’alunno non è un problema, casomai ha un problema e lo risolve insieme agli altri o al Maestro. Nessuno viene lasciato solo. Finito di leggere, mi chiedo: sarà forse questa la scuola dell’affetto? Negli stessi giorni frequentavo un corso tenuto da una valida psicologa, organizzato per gestire i casi difficili in classe. La dottoressa insisteva più volte sul “vedere” il ragazzo nel suo mondo per aiutarlo a venire fuori dal suo buco nero. Sarà questa la scuola dell’affetto? Le colleghe al corso, giustamente, facevano notare che non si è pronti per una tale sfida. Forse le condizioni non sono ancora mature per un simile cambiamento. E forse non tutti lo vogliono. Una collega, d’altro canto, che aveva “visto” alcuni suoi alunni, nel senso che aveva intravisto le loro fragilità e raccolto le loro confessioni, si è sentita rispondere dal suo dirigente che il suo compito non è investigare ma spiegare. 

In fondo la scuola è l’ultima propaggine di un apparato legislatore a cui deve obbedienza e quel dirigente credeva di aver interpretato bene la normativa, non era contrario all’attività della collega in quanto azione positiva. È proprio qui che sta il problema: cosa si chiede ad un docente? Al corso per l’abilitazione all’insegnamento fui posto davanti al professore del film L’attimo fuggente. Mi dissi che sarei stato come lui. Mi chiedo: starei nelle leggi italiane, proponendo ai miei ragazzi quel genere di approccio esistenziale? Il professore del film, alla fine, viene cacciato. Qualcosa di simile capita al professore cieco dell’appello. La collega ha vissuto nel suo piccolo lo stesso affronto. A tutti è stato detto: spiega, tanto non cambierai le esistenze di questi ragazzi! Ma è così? O dobbiamo veramente lavorare per una scuola, chiamiamola dell’affetto, che introduca, per esempio, gli autori del passato anche come specchio per confrontarsi nel proprio percorso? Se è vero che l’epoca del Covid non lascerà il mondo come lo aveva trovato e se è vero che in tempo di crisi, cioè di taglio col passato, bisogna cogliere l’attimo fuggente (è proprio il caso di dirlo!) per migliorare tutto ciò che può essere migliorato, allora bisogna cominciare a dare qualche risposta, possibilmente condivisa, alle numerose domande non facili sorte in questa pagina.




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