CORRISPONDENZA FAMILIARE
di don Silvio Longobardi
La verità non si misura con il consenso. Il coraggio di andare controcorrente…
15 Marzo 2021
Da anni si discute sulla praticabilità della dottrina proposta dall’Humanae vitae. Vorrei dirlo senza giri di parole. Se la prassi ecclesiale non fa proprio nulla, se mancano percorsi adeguati, se mancano persone specificamente formate e perciò capaci di accompagnare fidanzati e sposi nella scoperta di una sessualità pienamente umana… è ovvio che la proposta etica di Paolo VI s’impantana.
La nomina non poteva certo passare inosservata. L’Istituto Teologico Giovanni Paolo II, fondato da Papa Wojtyla nel 1981 al fine di promuovere una riflessione specifica su matrimonio e famiglia, da alcuni anni si trova al centro di una polemica tra due modi sostanzialmente diversi di affrontare la problematica e le diverse questioni etiche che oggi investono la realtà della famiglia.
Mons. Philippe Bordeyne, che prende il posto lasciato da Pierangelo Sequeri, ha un curriculum di tutto rispetto. Dal 2011 dirige il prestigioso Institut Catholique di Parigi, nel 2015 ha partecipato in qualità di esperto al secondo Sinodo sulla famiglia, fa parte del comitato scientifico di diverse riviste di teologia morale, negli ultimi anni ha pubblicato diversi articoli a sostegno dell’esortazione Amoris laetitia di Papa Francesco. Com’era prevedibile la sua posizione dottrinale è stata attentamente vagliata da coloro che vedono in questa nomina una conferma del nuovo corso che rottama definitivamente la dottrina e il metodo di indagine che hanno fatto dell’Istituto Giovanni Paolo II una vera e propria scuola teologica che per quattro decenni ha influenzato non poco la riflessione e l’approfondimento nella Chiesa Cattolica.
Non è giusto avanzare giudizi sommari, anzi è doveroso lasciare al nuovo Presidente il tempo per delineare un programma. Solo in una seconda fase sarà possibile dare una valutazione che non resta legata alle pregiudiziali ma tiene conto delle scelte effettivamente compiute. E tuttavia, spulciando qua e là le segnalazioni di alcuni siti cattolici, mi ha colpito questa riflessione, pubblicata nel 2015 alla vigilia del Sinodo sulla famiglia: “L’enciclica Humanae Vitae insegna che solo i metodi naturali di controllo della fertilità sono leciti. Tuttavia, si deve riconoscere che la distanza tra la pratica dei fedeli e l’insegnamento del magistero è aumentata. È questa una palese sordità alle chiamate dello Spirito o il frutto di un’opera di discernimento e responsabilità tra le coppie cristiane sottoposte alla pressione di nuovi stili di vita?”.
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La crescente distanza tra la proposta dottrinale del magistero ufficiale e l’accoglienza piuttosto fredda degli sposi cristiani, fa dire a mons. Bordeyne che dobbiamo avere il coraggio di rivedere la norma morale e riproporla in una forma meno rigorosa, dando maggiore spazio al discernimento dei singoli e lasciando a loro la possibilità di scegliere se seguire la via dei metodi naturali o utilizzare i mezzi contraccettivi. Tutto questo ovviamente in un’ottica umanizzante che pone l’amore coniugale come criterio decisivo delle scelte etiche.
Questa riflessione è intrigante perché non contiene solo una precisa proposta ma offre un metodo di lettura che, se applicato coerentemente, come la logica richiede, rischia di modificare in senso soggettivo tutte le altre opzioni che il credente è chiamato a compiere nelle diverse e mutevoli circostanze della vita.
Da anni si discute sulla praticabilità della dottrina proposta dall’Humanae vitae. A parole sono pochi, compresi alcuni vescovi, quelli che chiedono di rottamare l’enciclica di Paolo VI. Nei fatti però si fa di tutto per sminuire il suo valore dottrinale, sottolineando che non si tratta né di una verità di fede né di una dottrina irriformabile; si afferma la necessità di sviluppare il contenuto della proposta per adattarla alle esigenze del nostro tempo; si accusano coloro che difendono l’enciclica a spada tratta di aver dato alla norma morale uno spazio eccessivo rispetto al ruolo della coscienza che invece risplende nelle pagine del Vaticano II. Insomma, a parole si difende il magistero ufficiale – e, detto fra noi, non potrebbe essere diversamente – ma nei fatti si pongono le premesse per una sostanziale dissoluzione.
In questo acceso dibattito, la cosa più curiosa è la posizione di coloro che interpretano lo scarso consenso che il documento ha ricevuto come un segnale che spinge, e quasi costringe, ad un serio ripensamento dottrinale. È un atteggiamento ipocrita: prima non si fa nulla per rendere attuabile la dottrina, anzi si alimenta un clima di sostanziale sfiducia nei confronti della proposta; e poi dalla fredda ricezione si trae la conclusione che il Documento non risponde alla realtà, non è praticabile e dunque obbliga la Chiesa ad offrire un’interpretazione più fattuale e meno rigida.
È cosa buona riprendere il fondamento antropologico e teologico dell’Humanae vitae, è necessario comprendere perché Paolo VI scelse questa strada, certamente più ripida rispetto a quella che – fin da allora – una parte non minoritaria proponeva. Tutto questo va fatto con il più grande scrupolo, trattandosi di argomenti decisivi. Ma c’è un altro aspetto della questione, quello della prassi pastorale: è qui che concretamente la teologia entra nella storia, l’acqua del cielo incontra il fango della terra. È qui che tutto inizia o tutto finisce.
Vorrei dirlo senza giri di parole. Se la prassi ecclesiale non fa proprio nulla, cioè non investe energie né risorse economiche, al fine di promuovere un’attiva e concreta educazione alla sessualità e alla procreazione; se mancano percorsi adeguati, se mancano persone specificamente formate e perciò capaci di accompagnare fidanzati e sposi nella scoperta di una sessualità pienamente umana… se tutto questo manca, è ovvio che la proposta etica di Paolo VI s’impantana prima ancora di cominciare, come un goccia limpida che resta sospesa nell’aria. E così la parola si fa carta ma non si fa carne, resta un documento sul quale gli studiosi si accapigliano ma non diventa lo specchio in cui gli sposi rileggono il proprio vissuto.
La Chiesa ascolta tutti e desidera accompagnare ciascuno, tenendo conto dei limiti dell’umana natura. Ma non costruisce la sua proposta sulle statistiche sociologiche, non abbassa l’ideale solo perché la maggioranza lo ritiene impossibile. Il sensus fidei non si misura con il consensus fidelium. Lo scriveva Giovanni Paolo II nella Familiaris consortio. Quarant’anni fa. E non mi pare che questa regola oggi sia meno valida.
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