CORRISPONDENZA FAMILIARE

di don Silvio Longobardi

Negli abissi del dolore per seminare speranza. Il viaggio del Papa in Iraq

8 Marzo 2021

Non basta aver sconfitto militarmente la follia islamista, occorre vincerla sul piano religioso e culturale. Su questo punto il Papa in Iraq è stato chiaro: “Dio è misericordioso e che l’offesa più blasfema è profanare il suo nome odiando il fratello. Ostilità, estremismo e violenza non nascono da un animo religioso: sono tradimenti della religione. E noi credenti non possiamo tacere quando il terrorismo abusa della religione. Anzi, sta a noi dissolvere con chiarezza i fraintendimenti”.

Era il 2014, i miliziani islamici che sognavano il Califfato invadevano la piana di Ninive, nella parte nord dell’Iraq, sceglievano la città di Mosul come “capitale” della loro follia ideologica e istauravano un regime che, in nome della religione, ha barbaramente ucciso uomini, donne e bambini, ha distrutto luoghi secolari di culto, ha offeso i sentimenti religiosi, ha calpestato la dignità dell’uomo. Migliaia furono costretti a fuggire, a lasciare la loro terra, portando con sé poche cose e tanto, troppo dolore. Dovremmo andare a rivedere le immagini di quegli anni, per capire qualcosa di quella tragedia. 

In quella terra è arrivato Papa Francesco. Sono passati pochi anni, le ferite della guerra sono ancora ben visibili, ma più dolorose sono le ferite invisibili, quello struggimento del cuore dinanzi ad una violenza cieca e irragionevole che tende a distruggere le basi stesse della nostra umanità, quel desiderio di vivere in pace con tutti, fianco a fianco, mettendo in comune le differenze. Come avveniva da secoli in una terra in cui le diversità etniche e religiose sono fin troppo marcate. Non senza quei contrasti che appartengono all’umana debolezza ma senza mai cadere in quei conflitti che alimentano la spirale della violenza. 

Il Papa è entrato in questo abisso di dolore, ha visto di persona, ha ascoltato esperienze drammatiche, ha salutato uomini e donne che hanno sofferto l’indicibile, ha toccato con mano la fedeltà di una comunità cattolica, ferita ma non rassegnata. È venuto come pellegrino di pace, è venuto per consolare e confortare ma anche per annunciare la speranza. A Qaraqosh, la città dove risiede da secoli un’antichissima e numerosa comunità di lingua siriaca, la sua parola si è fatta annuncio. Dopo aver constatato “con grande tristezza”, “i segni del potere distruttivo della violenza, dell’odio e della guerra”, ha detto con voce calma e decisa:

“Questo nostro incontro dimostra che il terrorismo e la morte non hanno mai l’ultima parola. L’ultima parola appartiene a Dio e al suo Figlio, vincitore del peccato e della morte. Anche in mezzo alle devastazioni del terrorismo e della guerra, possiamo vedere, con gli occhi della fede, il trionfo della vita sulla morte” (7 marzo 2021).

A Qaraqosh la furia iconoclasta degli islamisti s’era abbattuta con particolare violenza, come a voler cancellare una storia secolare. In questi giorni la campana della chiesa, distrutta e ricostruita, ha ripreso a spandere le sue note, i cristiani tornano per riprendere il loro posto e partecipare attivamente alla ricostruzione del loro Paese. Questo processo è già in atto da qualche anno, da quando nel 2017 gli islamisti sono stati cacciati via manu militari. Un ritorno che avviene assai timidamente perché la sicurezza è ancora un desiderio talvolta attraversato da ombre pesanti, le diffidenze non sono scomparse, le condizioni economiche non sono favorevoli, gli interessi dei potenti lasciano le briciole alle famiglie più disagiate. 

Contro il malaffare ha elevato la voce il Papa. E lo ha fatto più di una volta. Un’insistenza che ha una sua ragion d’essere. Non ha parlato espressamente ma ha puntato il dito contro la corruzione che investe la politica e scoraggia gli uomini di buona volontà preoccupati di ricostruire un futuro dignitoso per tutti: “Non ci salverà l’idolatria del denaro, che rinchiude in sé stessi e provoca voragini di disuguaglianza in cui l’umanità sprofonda. Non ci salverà il consumismo, che anestetizza la mente e paralizza il cuore”. 

Non basta aver sconfitto militarmente la follia islamista, occorre vincerla sul piano religioso e culturale. Su questo punto la voce del Papa si è levata con chiarezza:

“Dio è misericordioso e l’offesa più blasfema è profanare il suo nome odiando il fratello. Ostilità, estremismo e violenza non nascono da un animo religioso: sono tradimenti della religione. E noi credenti non possiamo tacere quando il terrorismo abusa della religione. Anzi, sta a noi dissolvere con chiarezza i fraintendimenti”. 

Ha invitato i credenti – tutti i credenti – a denunciare la violenza che si ammanta di una falsa religiosità e a farlo “senza fraintendimenti”. A chi si riferisce? Evidentemente non sempre la condanna è stata unanime e chiara. Ci sono stati e ci sono complicità occulte, ci sono e ci sono coloro che finanziano e promuovono quel fondamentalismo che prepara e nutre il terreno in cui sorge la cieca violenza del terrorismo. Non dimentichiamo che negli anni del Califfato migliaia partirono dall’Europa per unirsi all’esercito. Non parliamo di pochi pazzi scatenati ma di migliaia di persone, nate e cresciute nei Paesi della civiltà giuridica. Chi ha armato le loro menti? Chi ha seminato tanto odio nel loro cuore? Sono domande scomode ma senza risposte vere, il male non tarderà a riapparire. Come di fatto avviene in tante altre parti del mondo. 

La vera vittoria è il perdono. Se non arriviamo a perdonare di cuore, settanta volte sette come insegna il Vangelo, il seme dell’odio resta nascosto nelle pieghe del cuore, di quel cuore così infido che nessuno di noi sa gestire. Il Papa non si fa illusioni, lui sa che il perdono è cosa difficile, di tutte le più difficile. L’idea del perdono non appartiene alla mentalità più rigorosa dell’islam che, anzi, spesso ritiene legittimo vendicare le offese arrecate alla religione. Il cristianesimo, invece, non può fare a meno del perdono, è in gioco la sua fede e la sua identità, come ha fatto notare Papa Francesco: “Il perdono è necessario per rimanere nell’amore, per rimanere cristiani” (7 marzo 2021). Se altri pensano che la vendetta sia necessaria per custodire il sacro nome di Dio, noi pensiamo che il perdono sia l’espressione più bella del volto misericordioso di Dio, l’unica che custodisce la sacralità dell’uomo, creato ad immagine di Dio. Certo, la via del perdono è lunga e cosparsa di spine ma non ci sono alternative: “La strada per una piena guarigione potrebbe essere ancora lunga, ma vi chiedo, per favore, di non scoraggiarvi. Ci vuole capacità di perdonare e, nello stesso tempo, coraggio di lottare. So che questo è molto difficile. Ma crediamo che Dio può portare la pace in questa terra”.

Il Papa oggi torna a Roma, la sua visita ha dato conforto e speranza, non poteva cancellare problemi atavici e conflitti recenti. E tuttavia, questo viaggio resta un punto fermo, una pietra miliare, segno di una vita che rinasce dopo aver sperimentato la forza brutale della morte. L’avvenire dei cristiani resta tuttora incerto ma la luce accesa in questi giorni incoraggia la comunità cattolica a restare come “granello senape”. È questa l’unica certezza. Troppo poco per chi vuole misurare la vita con la sicurezza sociale ed economica. Sufficiente per chi ha scelto di fare della fede la stella polare della vita. 




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Silvio Longobardi

Silvio Longobardi, presbitero della Diocesi di Nocera Inferiore-Sarno, è l’ispiratore del movimento ecclesiale Fraternità di Emmaus. Esperto di pastorale familiare, da più di trent’anni accompagna coppie di sposi a vivere in pienezza la loro vocazione. Autore di numerose pubblicazioni di spiritualità coniugale, cura per il magazine Punto Famiglia la rubrica “Corrispondenza familiare”.

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