26 gennaio 2021
26 Gennaio 2021
Come vivere l’amore quando uno dei due corre di più nella fede? | 26 gennaio 2021
di Giovanna Abbagnara
In questo tempo faccio molti incontri ai fidanzati nel cammino di preparazione al matrimonio. Purtroppo online data la pandemia. È una vera grazia poter parlare dell’amore come una vocazione. Siamo ancora troppo fermi all’emotività, alle pretese, ai progetti, ai doveri legali. Il fidanzamento è invece il tempo di Dio, il tempo in cui due persone comprendono di essere stati guardati e scelti per cominciare una strada nuova, bella e affascinante, faticosa ma proprio per questo entusiasmante.
Con mia grande sorpresa negli ultimi anni vedo gli uomini più partecipi e più intraprendenti nel rivolgere domande durante questi incontri. Assetati di comprendere meglio. Voglio prendere una volta tanto, qualcosa di buono da questo nuovo assetto antropologico nel maschile e nel femminile. Snudato del suo ruolo di autorità indiscussa da anni di lotte femministe, l’uomo può far emergere, senza corazze, quel lato sensibile e delicato soffocato da anni di supremazia. È un’opportunità per comprendere appieno il suo essere maschile e portarlo a compimento seguendo il Maestro che ha tutto da insegnare.
In uno degli ultimi appuntamenti, un ragazzo mi ha contatto privatamente per farmi una domanda. Tralascio la sua lettera per intero. Riporto solo il quesito principale: “Sono stato educato alla fede da piccolo. Seguo il cammino di catechesi da anni. Speravo di incontrare una donna che come me condividesse il percorso di fede ma mi sono innamorato perdutamente di una ragazza che lavora con me nello studio di ingegneria a Napoli. Quando ci siamo fidanzati, ho pensato che le avrei parlato del mio Maestro e l’avrei portata con me ad ogni incontro. Ero entusiasta e pieno di speranze. Ma lei è molto cauta, non prova la mia stessa gioia. Mi sembra di correre in avanti nelle vie di Dio e lei resta molto indietro. La amo e non voglio perderla. Secondo te questo sarà un problema quando saremo sposi?”.
Ah, se avessi il dono di prevedere il futuro, certamente non commetterei tutti i miei errori! Ma questa è una parentesi personale. Veniamo a Roberto e alla sua domanda. Conoscete l’opera di Eugène Burnand, “La corsa dei discepoli Pietro e Giovani al sepolcro”? Burnand si è ispirato al passo evangelico di Gv 20,3-10. Pietro e Giovanni vengono rappresentati mentre corrono verso il sepolcro. Giovanni, giovane e dalla tunica bianca, è dipinto più vicino alla meta. Pietro invece è rappresentato come un uomo anziano che indossa una tunica rossa e blu. Rappresentano aspetti diversi della realtà ecclesiale ma nonostante questa dicotomia, i due apostoli sono rappresentati come un tutt’uno. Essi sono l’immagine dell’intera Chiesa che raduna al suo interno, personaggi assai diversi, a volte completamente opposti. Come è possibile questo?
Pietro e Giovanni sono uniti, non perché si guardano l’uno con l’altro, non perché cerchino un accordo o un compromesso fra le loro personalità così agli antipodi, ma perché guardano tutti e due verso la stessa direzione, verso la stessa meta: Cristo. Non è dunque la velocità della corsa o chi arriva prima alla meta ma è la meta la ragione della loro corsa. Così nel fidanzamento non è necessario misurare continuamente i passi da fare ma è la decisione di guardare insieme verso la meta a determinare il cammino di fede. È l’amore che il Signore riversa nel cuore nostro che ci fa correre e questo soprattutto nel fidanzamento e poi nel matrimonio. L’amore permette la corsa, un amore che dobbiamo lasciare dilagare con pazienza perché la corsa non sappia di imposizione, ma di spontanea risposta all’amore di Colui che tanto ci ha amati.
Perché allora pretendere che l’altra capisca, che ascolti, che faccia quella determinata cosa, che assecondi il bene che gli stiamo proponendo? È sbagliato imporre il passo della corsa all’altro, corri tu per primo, senza che la tua divenga una corsa solitaria, ma che precede l’altro, lo sproni, gli indichi il cammino, senza lasciarlo brancolare nel buio. Una cosa è correre per arrivare primi, altro scattare per indicare il cammino e aprire una strada. Non bisogna mai dimenticare che si procede sempre insieme. A che serve, infatti, essere più veloci dell’altro se poi lo perdiamo per la strada?
È necessario aspettarsi nella corsa, accogliere le lentezze dell’altro, senza mortificarlo per il suo incedere che sembra rallentare il nostro. Meglio fare dieci passi insieme, che venti da soli: è la regola che deve scandire la vita in famiglia, ma se poi capita che qualcuno è più veloce – qualcuno deve pur tirare il carro, senza lamentarsi e soprattutto spingendo gli altri a non accomodarsi, ma offrendo solo la spinta, mai sostituendosi – bisogna attendere con pazienza che l’altro arrivi. La fretta non è frutto dell’amore. La carità genera la cura e la sollecitudine, non l’impazienza e l’ansia. Talvolta piccoli gesti denotano la nostra insofferenza: aspettare che l’altro si prepari, che scenda in orario per un appuntamento con gli amici, che arrivi a tavola senza doverlo chiamare più volte. Questo è possibile solo se l’attesa diventa vigilanza e custodia dell’altro, sorretti dalla preghiera, dal vivere questo tempo come occasione di grazia.
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