30 dicembre 2020

30 Dicembre 2020

“Mio figlio è morto” ma non era vero… | 30 dicembre 2020

di Giovanna Abbagnara

Durante la trasmissione di ieri su Radio Maria incentrata sul tema della maternità, al momento delle telefonate da casa, ho raccolto l’esperienza di Adele. Non ho potuto approfondire la sua storia, il tempo era poco e il dolore era immenso. Ho sentito la sua solitudine arrivarmi come un uragano in piena: il figlio era stato allontanato dai servizi sociali, si ritrovava senza i genitori morti da poco e senza un compagno. Ha letteralmente vomitato il suo dolore in due minuti. Stavo pensando a lei quando sulla pagina Facebook di una emittente televisiva locale, leggo la storia di una mamma che si è inventata la morte del figlio di quattro anni per non ammettere che il bambino fosse stato affidato ad una casa famiglia. Addirittura il parroco, che già altre volte aveva aiutato la donna, l’ha incontrata mentre con i fiori in mano si recava al cimitero. “È stato colpito da un malore improvviso”, ripeteva al sacerdote incredulo. In poche ore si è scoperto invece che il bambino era tranquillo e sereno in una casa famiglia. Allontanato dopo eventuali segnalazioni sul modo di vivere insieme alla mamma: in un garage senza luce e riscaldamenti.

Di fronte a queste storie così tragiche e così dolorose dovremmo con onestà fare due importanti riflessioni che sono assolutamente complementari e non alternative. La prima riguarda le case famiglia dove si accolgono minori. I dati più recenti del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, soggetto competente in materia, ci parlano di circa 3.000 comunità (sia educative che familiari) suddivise tra le varie regioni italiane. Più di 26.000 i bambini/adolescenti che nel nostro Paese vengono allontanati dai nuclei familiari d’origine per essere collocati nei diversi servizi (12.000 in comunità e i restanti in affido familiare). Quali sono i motivi per cui i bambini vengono allontanati dalle loro famiglie? Incapacità educativa, trascuratezza materiale e affettiva del minore, violenza domestica in famiglia, dipendenza di uno o entrambi i genitori, abuso e sfruttamento sessuale del minore, problemi giudiziari del padre o della madre. Una volta entrato in comunità, il minore non ha più contatti con la famiglia di origine? Viene adottato? La legge è chiara: il minore deve essere allontanato “nel suo primario interesse” per permettere di crescere e di avere una possibilità che la sua famiglia, in quel momento, non è in grado di dargli. Ma allo stesso tempo è necessario un lavoro costante degli educatori con le famiglie d’origine. Dove è possibile e si creano le condizioni infatti è opportuno che il bambino rientri in famiglia.

E qui subentra la seconda riflessione. Chi si preoccupa di sostenere le famiglie fragili? In che modo i servizi sociali territoriali oltre alla collocazione dei minori si prendono cura anche delle loro mamme e più in generale delle famiglie di origine? Qualche mese fa ho seguito una ragazza che per vari problemi che non sto qui ad elencare, in seguito ad un colloquio per la vita, ha scelto di portare avanti la gravidanza del suo bambino e dopo averlo partorito, ha deciso di non riconoscerlo. Nel mio percorso di accompagnamento non qualificato, ho cercato di tenere insieme la cosa migliore per il bambino e anche la vita della mamma. Ma quando ho interpellato i servizi sociali territoriali, mi hanno risposto che a loro interessava solo che il bambino fosse affidato quanto prima ad una famiglia, per la mamma non potevano fare nulla. È un sistema evidentemente miope che mira a risolvere il problema solo a metà. Lo stesso dicasi per i minori, ormai maggiorenni in uscita da percorsi di accoglienza. Vengono spesso lasciati al loro destino, vanificando il lavoro svolto quando erano minorenni.

Si agisce sempre in questo modo così frammentato. E invece bisognerebbe avere il coraggio di offrire e costruire un’alternativa. Una proposta che richiede di partire da una visione non centrata sull’individuo, ma sulla persona e sulla rete di relazioni fondamentali che la sostengono, mantenendo in tensione le esigenze personali, familiari e sociali. Si tratta di una visione più articolata e complessa, capace di valorizzare la famiglia non come una somma di individui, legati magari da obiettivi funzionali ma come un bene relazionale di cruciale importanza sociale. Chi farà qualcosa per Adele e questa mamma che per sopravvivere al dolore, ha pensato che sia meglio pensare il figlio morto? Continueranno a vivere nel loro dolore, continueranno a combattere i loro fantasmi da sole. Quanti si affannano a parlare di bene comune, dovrebbero cominciare da qui. Da questi resti abbandonati di famiglia.


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