Carlo Acutis

Giovani e mondo digitale: l’esempio di Carlo Acutis…

Carlo Acutis

Foto: http://www.carloacutis.com/

di Vito Rizzo, giurista

Cosa ci insegna Carlo Acutis sull’uso delle tecnologie digitali? La sua santità, fatta per fare grandi le cose semplici, ci mostra come la Rete può essere uno strumento straordinario per diffondere ovunque il profumo di Dio.

Leggere, scrivere di Carlo Acutis è un’esperienza di grazia. Mi sono accostato a lui in punta di piedi, cercando di cogliere il senso più intimo della sua esperienza con Dio e rendere condivisibile quella esperienza a tanti giovani come lui. Come spiego nel mio libro, Carlo Acutis, l’apostolo dei millennials la fede stessa è infatti esperienza, esperienza di Dio. In verità ciascuno di noi fa esperienza di Dio, il problema è che alle volte non riconosciamo che stiamo vivendo della Sua grazia. 

Acquisirne consapevolezza ci aiuta a leggerne i segni. Non si può parlare di fede, infatti, se non attraverso l’esperienza che ciascuno di noi fa personalmente di Dio. Siamo credibili, infatti, solo se la nostra esperienza è autentica e se, attraverso quell’esperienza, chi ci incontra vede che Dio è presente nella nostra vita. Il rischio, altrimenti, è di vivere una fede soltanto intellettuale, di tradizione, invece quando si inizia a leggere la propria vita vedendo che il dono di Dio è presente in tutte le circostanze della vita, in quelle più gioiose ma anche in quelle dolorose, dove è Lui che ci dà la grazia di poterle superare, allora la vita assume una bellezza che non era nemmeno preventivata. È lì che ci accorgiamo che è tutta grazia, tutto dono di Dio.

Nella mia esperienza, di padre, di zio, di educatore, ho constatato come per i più giovani una testimonianza come quella di Carlo sia capace di toccare le loro corde. È straordinario vedere l’effetto che fa lasciarli toccare da un’esperienza di santità così diretta, così a loro vicina. È un modo per sperimentare un’alternativa alla situazione attuale, al modo anche distratto di vivere se stessi. Perché questo è il grosso rischio che si corre e che Carlo ha spiegato così bene: «Tutti nasciamo originali, ma tanti muoiono fotocopie».

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La vita di Carlo ci interroga, ci mette in dialogo con la sua storia e, attraverso di Lui, con la presenza stessa di Gesù nella nostra quotidianità. È questo che rende possibile, oserei dire necessario, fare esperienza delle virtù anche nel mondo di oggi, anche per i ragazzi di oggi, e non solo a loro. Il problema è averne consapevolezza, perché, ancor più che in passato, il mondo che ci circonda crea delle barriere a che questa consapevolezza si esprima. La consapevolezza della ricerca della virtù diventa così il parametro per capire se ci lasciamo abitare dallo Spirito di Dio, se i ragazzi si lasciano abitare dallo Spirito di Dio; cioè se nelle loro scelte quotidiane, nelle loro scelte semplici, lì nel concreto, c’è spazio per la presenza di Dio al loro fianco, al nostro fianco. La spiritualità di Carlo è una spiritualità semplice, quotidiana. Carlo non è il ragazzo o il santo che ha fatto grandi imprese, ha fatto in maniera straordinaria le piccole imprese quotidiane; ha reso semplice qualcosa che di fatto è semplice, sempre che ci lasciamo abitare da Dio. 

I giovani possono cogliere questo: possono cogliere che è bello affidarsi, avere fiducia in se stessi, e avere fiducia che si è voluti bene da Dio e che quindi quello che noi affrontiamo nella nostra vita non è una prova da affrontare con la paura di come vada a finire, ma è una esperienza nella quale noi possiamo verificare come, sollecitati dalle difficoltà della vita, ci lasciamo accompagnare dal Signore. È così che troviamo in tutte le situazioni dei motivi di grande forza, di grande gioia. È la forza della grazia: è quella a rendere semplici quelle cose che razionalmente desisteremmo probabilmente quasi sempre dal fare. Invece la grazia ci dà sia la consapevolezza, che la forza di farlo. Pensiamo ad esempio alla prudenza, alla temperanza. Ai ragazzi bisogna fare entrare bene in mente che la prudenza non significa non fare niente, non significa non esporsi. Prudenza significa avere attenzione all’altro quando si fanno le cose, avere consapevolezza che siamo sempre in relazione con l’altro, che non ci possiamo chiudere nel nostro io. La prudenza quindi significa avere delicatezza, tenerezza. Nella Fratelli Tutti (FT 194) Papa Francesco la richiama addirittura come parametro per riconoscere la buona politica…

Pensiamo ancora alla virtù della giustizia: non è null’altro che capire che quando si fanno delle scelte non si fa quella che mi conviene o che penso mi convenga, si fa la scelta giusta, quella cioè che non riguarda soltanto me, ma me in relazione con gli altri, sempre. Noi dobbiamo sempre tener presente che siamo persone in relazione con gli altri. Se rinunciamo alla relazione con gli altri e rinunciamo a farci carico degli altri, di fatto rinunciamo ad essere “umani”. 

È bene che i ragazzi colgano questo aspetto: quello che è a rischio è il loro essere persona perché il mondo di oggi fa di tutto per omologarli. Ripeto, mi piace tantissimo quella frase di Carlo perché effettivamente il mondo vuole farci tutti fotocopie perché diventa più comodo gestirci; se non si pensa autonomamente, non si vive la propria vita autonomamente, non si fa esperienza diretta della relazione con gli altri, ma si segue una moda, un filone, tutto si appiattisce in una vuota esistenza. Invece nel momento in cui noi sappiamo che dobbiamo vivere con pienezza il senso della relazione, allora ci accorgiamo anche che questo ci realizza come persona e quindi ci rendiamo conto che è bello vivere con pienezza i doni che il Signore ha messo dentro di noi. Del resto è quello che, proprio pensando al mondo digitale, invita a fare papa Francesco nella Christus vivit, nella quale, non a caso, ha voluto porre proprio Carlo come esempio per i giovani: «I media digitali possono esporre al rischio di dipendenza, di isolamento e di progressiva perdita di contatto con la realtà concreta, ostacolando lo sviluppo di relazioni interpersonali autentiche» (CV 88). 

Pensiamo allora in quest’ottica alle scelte di Carlo. In maniera molto semplice, Carlo era bravo con internet, e dieci o venti anni fa questo non era nemmeno tanto scontato. Di conseguenza utilizzava questo dono, questa sua grande capacità per evangelizzare. La utilizzava per aiutare anche gli altri a scuola. La cifra della sua esperienza di vita era mettere il proprio talento in circolo. Questa è la prima cosa che Carlo ci insegna: mettere i propri talenti a servizio degli altri. Da questa semplice cosa è nata la Mostra Internazionale sui Miracoli Eucaristici che ancora oggi è scaricata e vista in ogni angolo del mondo. Carlo quindi non deve mostrare tanto tecnicamente cosa si può fare o non si può fare, ma il modo attento, il modo responsabile di stare in Rete. È forse questo l’aspetto più importante che è bene comprendano non solo i giovani ma ogni cristiano. Nella sua ultima Enciclica Fratelli tutti, Papa Francesco mette in guardia dai tanti rischi che si annidano nella Rete: «I rapporti digitali, che dispensano dalla fatica di coltivare un’amicizia, una reciprocità stabile e anche un consenso che matura con il tempo, hanno un’apparenza di socievolezza. Non costruiscono veramente un “noi”, ma solitamente dissimulano e amplificano lo stesso individualismo che si esprime nella xenofobia e nel disprezzo dei deboli. La connessione digitale non basta per gettare ponti, non è in grado di unire l’umanità» (FT 43). Quando ciascuno di noi posta qualcosa su Facebook, non lo fa semplicemente a titolo personale, seguendo i suoi umori, le sue passioni, la sua professione, le sue reazioni emotive. Ciascuno di noi in quello spazio è un cristiano che dà una testimonianza. Noi dobbiamo avere il senso, la responsabilità, il peso, che la nostra vita o è testimonianza o non lo è, anche su questo papa Francesco non lascia spazio a alibi e denuncia che tante volte sono gli stessi cristiani che «possono partecipare a reti di violenza verbale mediante internet e i diversi ambiti o spazi di interscambio digitale» (Gaudete et exultate 115). 

Soprattutto quando ci esponiamo chiaramente dicendo che crediamo, che abbiamo fede, che andiamo abitualmente a Messa, che seguiamo Cristo o proviamo quantomeno a seguire Cristo, le nostre azioni diventano testimonianza e lo spazio digitale diventa il luogo nel quale noi siamo maggiormente chiamati a questa responsabilità. Carlo ha molto da insegnarci anche in questo. Non solo ai giovani ma anche agli adulti Carlo mostra un esempio da seguire. Prima di condividere un post con una fakenews semplicemente perché l’algoritmo ci ha fatto vedere la fakenews adatta ai nostri gusti o alle nostre convinzioni, devo pormi sempre la questione della verità, la questione dell’utilità, la questione della carità. Se ci sono questi tre elementi che arricchiscono il mio stare in relazione con gli altri, la mia è testimonianza, viceversa è un errore, è sbagliato, mi abbrutisce, mi corrompe, mi corrode l’anima. 

Il problema allora qual è? È che alle volte usiamo i social sull’onda dell’emotività e non ci poniamo la questione della verità. È questa la post-verità. Non chiedersi se una notizia sia vera o falsa, ma semplicemente accreditarla perché “ci piace” e perché ci sembra “di tendenza”. La post-verità ci fa credere che la verità sia quello che viene diffuso maggiormente, ma non è così. Rispetto a questo è fondamentale insegnare ai giovani (e a tanti adulti che sembrano averlo dimenticato) come si legge la realtà, quali sono le chiavi. Non cosa leggere, cosa pensare, ma le chiavi per stare nel mondo digitale con responsabilità e consapevolezza. Anche su questo papa Francesco è stato quanto mai lucido e proprio ai giovani ha fatto presente come «operano nel mondo digitale giganteschi interessi economici, capaci di realizzare forme di controllo tanto sottili quanto invasive, creando meccanismi di manipolazione delle coscienze e del processo democratico. Il funzionamento di molte piattaforme finisce spesso per favorire l’incontro tra persone che la pensano allo stesso modo, ostacolando il confronto tra le differenze. Questi circuiti chiusi facilitano la diffusione di informazioni e notizie false, fomentando pregiudizi e odio» (CV 89 e FT 45).

Carlo che è un millennials, un nativo digitale come i nostri ragazzi, mostra che anche nel mondo digitale, dobbiamo mostrarci autentici. È proprio lì che dobbiamo essere ancora di più noi stessi perché i social non sono uno schermo nel quale noi ci nascondiamo e ci accreditiamo con una maschera che si sembra ci stia bene. Diciamolo chiaramente, questo è un altro dei grossi rischi che corriamo: la corsa continua all’apparire fa perdere di vista la sostanza dell’essere. Su questo i ragazzi hanno una grande sensibilità ma hanno anche tante volte dei modelli sbagliati. Carlo dunque ha molto da insegnare non solo ai giovani ma a ciascun cristiano. La nostra vita, la nostra vita cristiana, può brillare attraverso i social o in Rete. Non dimentichiamolo mai.




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