Case famiglia Ramonda: “Accogliere chi non ha niente è un atto di giustizia” Autore articolo Di PUNTO FAMIGLIA Data dell'articolo 15 Dicembre 2020 Nessun commento su Ramonda: “Accogliere chi non ha niente è un atto di giustizia” di Ida Giangrande Nel 1973 la prima casa famiglia per ragazzi disabili. Da lì oltre 500 case in tutto il mondo. 1000 bambini accolti, oltre 2.500 adulti. Ogni giorno 41.000 persone mangiano alle mense dei poveri. I contorni di un’esperienza particolare, quella dell’Associazione Papa Giovanni XXIII. Intervista al presidente Giovanni Paolo Ramonda. Come è partita l’esperienza delle case famiglia nella Papa Giovanni? Don Benzi con alcuni giovani andava negli istituti dove vivevano alcuni ragazzi disabili. Finiti i campi i giovani chiesero: “Perché non ci portate a vivere a casa vostra?”. Da lì la sollecitazione del cuore che portò don Benzi a comprendere che toccava a noi dare a quei ragazzi ciò che la vita aveva sottratto loro. Dovevamo realmente portarli a casa nostra. Così nel 1973 sorse la prima casa famiglia per ragazzi disabili a Coriano a Rimini. Da lì è partita l’esperienza che ci ha portati a oggi ad avere quasi 500 case famiglia in tutto il mondo. Quanti ragazzi accoglie la Papa Giovanni? Sono tutti portatori di handicap? Molti di loro sono portatori di gravi handicap fisici, psichici o sensoriali. Attualmente nelle nostre case sono accolti circa 1000 bambini e 2.500 adulti in tutte le comunità del mondo. Ogni giorno mangiano 41.000 persone alle mense della Papa Giovanni. Parliamo di persone che hanno qualsiasi tipo di disagio, persone abbandonate, separati, disoccupati che ruotano intorno alle nostre comunità, che vanno nelle capanne di Betlemme a trascorrere la notte o che trascorrono alcune ore del giorno insieme a noi. Ricorda il momento in cui ha conosciuto don Oreste Benzi? Sì, è stato nel Natale del 1979. Io dovevo fare un servizio civile e andai nella sua Parrocchia “Resurrezione”. Fui subito colpito dalla sua spontaneità. Da lì inizio il mio cammino di fede. Che mi portò ad aprire la prima casa famiglia nel 1980. Eravamo un gruppo di cinque giovani. Un’esperienza ancora viva oggi dopo cinquanta anni di vita della comunità. Io e mia moglie siamo ancora in casa famiglia da quarant’anni. Abbiamo 9 bambini accolti. Tre figli naturali. Oggi due di loro sono già sposati e abbiamo 8 nipoti. Leggi anche: Se un giorno busserò alla tua porta Ha detto che, in quel Natale del ‘79 lei andò a trovare don Benzi, nella sua parrocchia. Perchè? Che cosa stava cercando? Un orizzonte di senso in cui inquadrare la mia vita. Ero un universitario all’epoca e insieme ad un gruppo di amici ci interrogavamo sul valore delle cose e dell’esistenza. Non ci bastava ciò che il mondo aveva da offrici. Volevamo di più. Volevamo una comunità che ci indicasse una logica di vita non violenta, basata sulla donazione gratuita e disincantata. Volevamo una comunità fondata sulla condivisione dei beni, sul lavorare sodo, sulla giustizia. In don Oreste abbiamo trovato tutte queste cose. Lei, insieme a sua moglie, ha deciso di condividere la sua vita con i bambini che non hanno nulla. Cosa vuol dire accogliere un bambino nella propria casa? Generare e rigenerare nell’amore. È quello che sperimentano tante famiglie adottive. Accogliere chi non ha niente, chi è segnato nella carne e non può provvedere a sé stesso, è un atto di giustizia. Dio ha conferito un corpo che è la Chiesa, in cui le membra più deboli sono quelle a cui spetta più cura, rispetto, dedizione e onore. E alla fine abbiamo capito che sono loro a dare a noi molto più di quanto noi diamo a loro. Per la mia famiglia aprirsi al dono dell’accoglienza è stata una benedizione. Potevamo fare altre cose, e invece essere papà e mamma di chi non ha niente vuole dire essere ancora una piccola luce per la società. Uno stimolo per chi vive chiuso nella propria professioni, confinato nel proprio orticello. Pienamente nel mondo eppure fuori dal mondo. Da dove prendete la forza per condividere l’esistenza con queste persone? Don Oreste diceva sempre che per stare in piedi bisogna stare in ginocchio. E che per stare con i poveri tutta la vita non solo qualche giorno, devi stare con Gesù. È questa la nostra forza: stare con Gesù. Non siamo superuomini, l’unica forza è credere che Gesù ci dà la sua forza. Come è strutturata una giornata di preghiera nelle vostre case famiglia? Si parte presto al mattino alle 6.00, i ragazzi spesso non sono autosufficienti, quindi c’è la sveglia, la colazione e poi ciascuno di loro deve essere accompagnato a Scuola, nelle svariate attività che seguono. Ogni casa famiglia ha la sua cappellina dove c’è Gesù eucarestia e durante il giorno ci ricaviamo, talvolta conquistandolo a fatica, un tempo per la preghiera e poi la Messa quotidiana, la più grande eccellenza. Don Oreste ci affidava sempre alla Vergine nella preghiera dei Poveri con Il Rosario a cui siamo ancora molto legati. Qual è il valore aggiunto che la case famiglia, intese come famiglie che si aprono all’accoglienza e non come piccoli collegi con operatori turnanti, hanno apportato alla società? È uno stile che propone la logica del dono. Nelle case famiglia tutto è a servizio. Il lavoro, le mansioni domestiche, il tempo tutto è un dono ricevuto gratuitamente e donato in maniera altrettanto gratuita. Ti dai completamente. Non si tratta di un lavoro o di una professione, ma di uno stile di vita che può essere trasmesso. Cosa sente di dire ad una coppia che sta per aprirsi ad esperienze del genere? Non abbiate paura. Siate generose, ma non fatelo da soli. Agganciatevi ad una comunità o ad una parrocchia che già lo fa in maniera sistematica. Si tratta di una sfida impegnativa e arricchente, che educa anche i figli naturali. Se educhiamo i nostri figli alla logica della donazione gratuita di sé e lo facciamo attraverso l’esempio, il sacrificio e l’impegno concreto, stiamo costruendo quella che Paolo VI ha definito la civiltà dell’amore. Aiutaci a continuare la nostra missione: contagiare la famiglia della buona notizia Cari lettori di Punto Famiglia, stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11). CONTINUA A LEGGERE Tag Associazione Papa Giovanni XXIII, Case famiglia ANNUNCIO Lascia un commento Annulla rispostaIl tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *Commento Nome * Email * Sito web Per commentare bisogna accettare l'informativa sulla privacy. Ho letto e accettato la Privacy Policy * Ti potrebbe interessare: “Volevo essere pura, ma non ci riuscivo per insicurezza. Poi accadde qualcosa…” Carlo Acutis e Piergiorgio Frassati: ecco le date della loro canonizzazione Causa di canonizzazione per Carlo Casini? Per Paola Binetti sarebbe segno di speranza “Papà per scelta”: quando il sentimentalismo non lascia posto a un dibattito vero Il compleanno di vostro figlio, una tappa del viaggio della vita Chi è causa del suo mal pianga se stesso? 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