25 novembre 2020
25 Novembre 2020
33 figli in cerca di un padre
di Giovanna Abbagnara
Qualche volta capita, molto di rado che un piccolo malessere fisico – mal di testa, colecisti in subbuglio, collo da oleare – ti costringa a stare alle 22 di sera sul salotto a fare zapping. Il pensiero mi diceva: “Giovanna, perché non te ne vai a dormire?”. Dall’altro lato faceva eco quel desiderio materno di fare qualcosa tutti insieme, come vedere un bel film. La scelta cade su Nove lune e mezzo, film del 2017 diretto da Michela Andreozzi. Dopo tre minuti dall’inizio, mi è chiaro che siamo davanti all’ennesimo caso di indottrinamento sui temi dell’utero in affitto, coppie omogenitoriali, bigottismo estremo. Insomma, un’insalata condita ad arte. Mi preparo a cercare di smascherare ogni smielato tentativo di seduzione propinato dal film. E addio riposo! Ma è possibile che ci si debba continuamente parare con lo scudo della ragionevolezza? È possibile che questa cultura mortifera della dignità umana ci deve essere servita a colazione, a pranzo e a cena?
Veniamo al film: Livia e Tina sono due sorelle sulla quarantina, tanto unite quanto diverse. Livia è una violoncellista bella e sfrontata, dall’anima rock. Modesta, detta Tina, è un timido vigile urbano che ha buttato una laurea per il posto fisso. Entrambe hanno un compagno: Livia convive con Fabio, Tina con Gianni. Livia difende da sempre la sua posizione di donna che non desidera avere figli, mentre Tina tenta da anni di restare incinta, senza risultato: quando Tina, nella sua ricerca, inizia a perdere la testa, Livia, consigliata dall’amico ginecologo, l’audace Nicola, omosessuale convivente con due figli avuti in Canada con l’utero in affitto, decide di portare avanti una gravidanza per lei. Si lascia impiantare un embrione, frutto dei gameti della sorella e del suo compagno. Nei successivi nove mesi, Livia dovrà nascondere la pancia crescente, mentre Tina fingerà di essere incinta. Non mancherà il coinvolgimento della famiglia di origine: una mamma campionessa di ragù, un padre idealista e sognatore, un fratello neocatecumenale con moglie devota e quattro figlie femmine.
Insomma, c’è tutto quello che serve per l’indottrinamento, compreso il finale stucchevole della nascita della bambina, Luna, finalmente consegnata come un pacco dalla sorella partoriente alla sorella sfortunata: la banalizzazione della gravidanza, l’istigazione al reato perché in Italia la gestazione per altri è vietata, l’irrisione della fede del fratello neocatecumenale. Tutto questo a cosa serve? Unicamente a normalizzare comportamenti e stati di vita, a mostrare ad un vasto pubblico i sentimenti puri e delicati di alcune istanze delle lobby lgbt senza prevedere alcuna conseguenza sul piano psicologico, interiore e spirituale delle persone coinvolte.
Facciamo un esempio nel mondo reale, da un altro punto di vista. Quello che non viene preso mai in considerazione e cioè quello del figlio: quando crescerà e si porrà delle domande cosa gli risponderanno?
Eli è un giovane di Oakland, in California. Nato nel 1998, è cresciuto in una coppia di donne e fin da piccolo gli è stato comunicato che suo padre era un donatore di seme, anonimo. A 11 anni Eli chiede maggiori informazioni su suo padre e le donne che lo hanno cresciuto gli danno una copia del questionario che il donatore aveva compilato al momento della registrazione nella banca del seme. Per Eli quel foglio freddo e precompilato ha un valore inestimabile, tanto che inizia a portarlo con sé nello zaino, a scuola, a toccarlo di tanto in tanto. «C’era questo senso del tatto… Questa persona aveva usato la mano per rispondere a queste domande; potevo vedere dove aveva cancellato le cose. Non che fossi così disperato nell’immaginare chi fosse; bastava avere la prova che era reale» confida Eli a Susan Dominus il 20 giugno del 2019, realizzando così un incredibile reportage per The New York Times.
Gli anni passano, Eli va in un college a New York e stringe amicizia con un ragazzo, Gus Lumb, anche lui ha un padre donatore di seme ed è cresciuto in una coppia di donne. Si scambiano i codici dei donatori il cui seme li ha messi al mondo. Sono fratellastri. Non è finita qui. Eli scopre che lui e Gus hanno altri fratellastri e sorellastre in giro e decide di conoscerli tutti. Attraversa 16 Stati e fotografa 32 fratellastri. Le foto pubblicate sul Times sono angoscianti. «Di tanto in tanto vedevo qualcosa di inquietante a proposito di me stesso in uno degli altri fratelli che poteva rimescolare completamente il mio senso del sé, il modo in cui il collo di una persona diventava chiazzato quando era a disagio o il modo in cui un altro si mordeva il labbro».
Ma siamo davvero certi che comprare un figlio, amarlo, crescerlo sia la garanzia della sua felicità? Io lo chiederei ad Eli e ai suoi fratelli.
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