Scuola

di Piero Del Bene, insegnante

“Io Kamal”: tutto ciò che la didattica a distanza ci sta insegnando

18 Novembre 2020

La comunicazione tra insegnanti e allievi è ostacolata dallo schermo oppure grazie alla didattica a distanza stiamo imparando nuove cose sul modo di comunicare? Il principale assioma di questa scuola è rintracciabile nell’affermazione “non si può non comunicare” anche i silenzi parlano e spesso superano la distanza virtuale.

“Ciao. Io Kamal” Il nome ovviamente è di fantasia. Me lo ritrovo sulla chat che avevo condiviso con un ragazzo di origine extracomunitaria che era arrivato a settembre nella nostra scuola. Il papà capisce solo qualche parola di italiano. Con lui, il ragazzo, si riesce a comunicare poco in francese perché parla un dialetto di quella lingua non facilmente codificabile. Avevamo trascorso i primi giorni di scuola a settembre cercando di fargli capire a che ora venire, che non poteva tornare a casa da solo, che un poco alla volta lo avremmo aiutato ad imparare la nostra lingua. Il ragazzo è sveglio, lo intuiamo dagli occhi vispi. Il papà ci dice che, nel suo paese di origine, Kamal è stato un alunno tra i migliori della classe. Avevamo cominciato a capirci appena, quando l’attivazione della didattica a distanza in Campania ha frapposto un nuovo ostacolo alla sua integrazione. Come raggiungerlo da remoto senza il contatto almeno visivo? La scuola gli ha fornito, su domanda del genitore, un tablet per la connessione. Ma come spiegare il funzionamento della DDI? 

In un primo incontro gli è stato spiegato come entrare nella piattaforma, ma il suo tablet non gli permette di entrare facilmente, il ragazzo ha bisogno di istruzioni. Allora l’animatore digitale lo incontra una prima volta fuori dalla scuola. Cerca di dargli delle dritte. Sembra aver capito, ma nei giorni successivi Kamal fatica ancora a connettersi. Allora l’animatore digitale della scuola decide di contattarlo da vicino. Va a casa sua, si fa dare il tablet per configurarlo. La navigazione fa capire che il ragazzo sa usare il dispositivo: molte sono le pagine in arabo ancora aperte. Esse si presentano incomprensibili all’animatore italiano che, così, può provare a comprendere più da vicino e personalmente cosa stia vivendo dall’altra parte il ragazzo. Sono pagine dedicate al calcio: lo si capisce dagli stemmi di due squadre impegnate in Champions League. Questo fatto rende Kamal molto più familiare: in fondo è un ragazzo come i nostri. “Io Kamal” è il messaggio che mi ha mandato per dirmi: “Prova a parlare con me. Sono qui. Sono io”. Kamal è entrato nella DDI, partecipa, è contento, forse ha ragione il papà. 

Questa appena riassunta è solo una delle numerose vicende a cui ci sta ponendo di fronte la didattica a distanza a cui ci ha costretti, in Campania prima che in tutta Italia, il Covid 19. I colleghi anche di altre scuole mi raccontano episodi al limite del romanzesco ma tuttavia reali che vale la pena riportare per una riflessione che probabilmente è arrivato il momento di sviluppare. Una collega di inglese mi ha raccontato che, mentre rimproverava in videolezione un alunno che non si stava comportando adeguatamente, si è ritrovata la mamma dell’alunno irrompere nella lezione per riprendere il figlio, riempirlo di scappellotti e di epiteti irriferibili “invitandolo” a vivere correttamente la scuola. Tutto ciò “davanti” alla classe, in diretta, online. La collega mi ha confidato che da allora non richiama più i ragazzi in videolezione temendo reazioni spropositate di mamme in agguato. Vale anche la considerazione che “finalmente” abbiamo istallato le videocamere in classe e nelle case. È un fatto positivo? Ai posteri l’ardua sentenza, direbbe Manzoni. Un collega mi ha raccontato cosa ha visto nel frigo di una sua alunna mentre erano in lezione e la madre trafficava in cucina. C’è stato anche qualche genitore che si è spinto oltre: durante una lezione d’arte di un istituto del primo ciclo, di fronte alle vane richieste di silenzio del docente rivolte alla classe che non si calmava, una mamma si è fiondata in video per fare una ramanzina vibrante verso la scolaresca. Il prof, spiazzato, non ha saputo come frenare la mamma più che i figli. 

Per riportare qualche fatto dello stesso tenore ma più leggero, possiamo raccontare che in una scuola superiore, in prossimità della giornata che qualcuno dedica ancora ad Halloween, gli alunni di un’intera classe del IV anno di un liceo, prima si sono presentati in lezione a videocamera spenta e poi, in seguito alle richieste di attivazione della docente, si sono mostrati tutti coperti da un lenzuolo tipo-fantasma. La cosa è finita in una risata collettiva che ha aiutato a sdrammatizzare il tempo che viviamo. Si potrebbe continuare con molti altri episodi raccolti in meno di un mese. A noi, tuttavia, interessa qui affrontare un altro aspetto, forse più interessante. Lo prendiamo a partire da Paul Watzlawick che è stato il personaggio di spicco della Scuola di psicologia di Palo Alto. Le idee e gli esponenti di tale scuola sono passati un poco in secondo piano negli ultimi anni, ma ci offrono degli spunti di riflessione assai importanti. Rimane una corrente di pensiero interessante che ha dato un contributo nella comprensione di alcune dinamiche dietro alla comunicazione interpersonale, grazie al concetto di metacomunicazione, cioè della comunicazione sulla comunicazione. Secondo tale idea non si comunica solo attraverso le parole ma, molto di più, attraverso gli atteggiamenti. E anzi spesso questi dicono quelle verità che la bocca sta nascondendo. Ad esempio, se dici ad una persona “non fa niente” con aria arrabbiata in realtà gli stai meta-comunicando il contrario. Il principale assioma di questa scuola è rintracciabile nell’affermazione “non si può non comunicare”. In altre parole, non si deve cadere nell’errore di ritenere che una persona che tace non stia comunicando: probabilmente sta dicendo moltissime cose.

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La DDI, come si pone da questo punto di vista? Molti ritengono che la mancanza di contatto fisico tra docenti ed alunni stia troncando questo canale comunicativo. Gli esempi che abbiamo riportato e i tanti altri che si potrebbero fornire sembrano invece comunicare il contrario. In questa seconda fase di chiusura delle attività in presenza, forse perché più abituati, stiamo scoprendo che c’è un mondo di sentimenti e sensazioni, sia negative che positive, che oltrepassa lo schermo, che riesce ad attraversarlo. Mentre abbiamo trascorso l’estate a tessere la tela di Penelope, immaginando sistemazioni di banchi e procedure per la vita in presenza, nella scuola, stiamo vivendo un autunno in cui quella tela viene disfatta e ci viene chiesto di ritornare alla didattica digitale così che la realtà, anche se per via virtuale, ci si fa incontro attraverso il digitale. Il punto è che oggi si discute di meno sulla via digitale alla formazione. La realtà, per il secondo anno, ci mette con le spalle al muro. I più, a questo punto, più che discutere il mezzo, stanno provando ad utilizzarlo al meglio: siamo anche più pronti e formati. La bella notizia è che in questa fase non mancano le sorprese positive. Probabilmente riusciamo a restare umani anche attraverso uno schermo. La vita riesce a passare anche attraverso i bit della rete: e questa è una scoperta per molti. Bisogna inforcare occhiali speciali, però. Occorre saper vedere attraverso questa modalità. Non si può non comunicare, anche in questa modalità.

Solo per fare un esempio banale, possiamo considerare che il ragazzo in difficoltà, che in classe ti chiedeva come funziona l’indice di un libro per cercare un argomento, ora ti chiede come si mette il punto esclamativo dalla tastiera di un computer. Cambia qualche contenuto, ma il rapporto di fiducia reciproca può essere fatto salvo. Anche nel caso in cui questa manca come durante le valutazioni delle interrogazioni. Nella seconda annata ci si sta spingendo anche oltre. E così c’è chi organizza convegni, chi fa ritiri spirituali, chi fa catechesi. C’è persino chi fa lezioni private in questa modalità. La novità sta nel fatto che si cresce anche attraverso l’interfaccia digitale. È tutto sbagliato? Forse no. Forse le ristrettezze del tempo presente ci stanno disvelando altri orizzonti. Dovremo essere bravi, ad emergenza placata, a non disperdere tutto ciò che stiamo imparando, anche sull’umano, in questo periodo.




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