17 novembre 2020
17 Novembre 2020
“Sono Joseph, ho sei mesi e sono morto in mare”
di Giovanna Abbagnara
Caro Joseph,
finalmente questa mattina ho visto il video che da cinque giorni non avevo il coraggio di far partire. Ritrae la tua mamma, bellissima, giovanissima. Ha il ventre gonfio di vita. Tra poco ti darà la gioia di avere un fratellino o una sorellina. Ma non avrai modo di giocare un po’ con lui o con lei. Il mare violento e il gommone troppo pieno ti hanno fatto scivolare dalle braccia sicure della tua mamma a quelle impietose delle onde. E tu, piccolo Joseph, troppo piccolo per cercare di salvarti da quella stretta minacciosa, ti sei abbandonato alla morte tra le grida disperate della tua mamma che continuava a urlare: “I lose my baby. I lose my baby!”. “Ho perso il mio bambino”.
Provo un dolore immenso, sordo, non minimamente paragonabile a quello che ora si è piantato nel cuore della tua mamma. Un dolore che non possiamo ignorare, un dolore che grida vendetta agli occhi di Dio. Vorrei che questo dolore lo sentissimo tutti, che tu non restassi una notizia tra le tante in una cupa giornata di novembre. Sai Joseph, noi uomini del 2020 ci siamo assuefatti al dolore. A volte la nostra umanità recalcitra. Un guizzo di compassione attraversa per un attimo la nostra vita frenetica per poi accantonarlo subito. “Ed io cosa posso fare?”. È la domanda più ricorrente, sotto la quale sotterriamo la nostra responsabilità.
Abbiamo sempre un buon motivo per non pensare a tragedie come la tua, sempre qualcosa di più urgente di cui occuparci. Eppure, la tua morte apre una ferita, fa venire a galla un’indignazione che non deve essere dissolta tra le altre. Fa male pensarti, sai. Fa male tenere gli occhi fissi su di te questa mattina. Fa male pensare che sei stato costretto a partire dal tuo Paese, la Guinea, perché la tua mamma voleva darti un futuro migliore. Ti abbiamo ingannato, tutti. Stiamo a litigare sulle politiche migratorie e intanto sciacalli e senza scrupoli, criminali arricchiti fanno leva sui vostri sogni, sulle vostre povertà e vi consegnano all’infausto destino di un mare, il Mediterraneo, che non perdona la precarietà del mezzo di trasporto.
Tu non saresti mai dovuto salire su quel barcone. Saresti dovuto rimanere nel tuo Paese, con la tua famiglia, i tuoi fratelli. Lì avevi diritto a vivere dignitosamente. Saresti dovuto andare a scuola, avresti dovuto litigare con la mamma per un’ora in più di gioco a pallone con i tuoi amici e poi tornando a casa con le ginocchia sbucciate, saresti stato sgridato come tutti i bambini ma poi a cena, la mamma ti avrebbe preparato le ciambelle e avresti riso di gusto. E poi avresti studiato, incontrato la ragazza dei tuoi sogni e saresti diventato padre. E avresti stretto tra le braccio tuo figlio. Esattamente come la tua mamma ti stringeva tra le braccia prima che tu cadessi in mare.
E invece non potrai farlo e ti chiedo perdono perché è anche colpa mia. Qui nell’altro mondo verso cui navigavi siamo tutti impauriti e schiacciati da un virus che ha condizionato tutta la nostra vita. Abbiamo fermato Paesi per contrastarlo. Andiamo in giro con strane mascherine, e guardiamo chiunque si avvicini in cagnesco perché ciascuno può essere un probabile untore. Stiamo cercando di fare il possibile ma non abbiamo fatto lo stesso per te. Non siamo stati in grado di fermare il flusso di persone che ogni giorno si riversano in mare. Non siamo stati capaci di debellare il virus dell’indifferenza che ha tarlato il nostro cuore indurito. Non siamo stati capaci di aiutare il tuo Paese. Noi veniamo, rubiamo, sfruttiamo, vi lasciamo poveri e quando la disperazione vi spinge a cercare altrove una speranza vi lasciamo in balia di codardi e senza scrupoli.
Piccolo Joseph mi consola saperti affidato a cure molto più sicure delle nostre. Sono certa che il mio Maestro che ama tanto i bambini giocherà con te e ti amerà come noi non siamo stati capaci di fare. Io non ti dimenticherò. Cosa posso fare? Non lo so. So che ognuno di noi può abbattere il muro dell’indifferenza. So che possiamo diffondere una cultura della vita a cominciare dal rispetto dei bambini nel grembo materno, so che possiamo fare di più per chi, come te, è nato nell’altra parte del mondo. So che girare il viso dall’altro lato per non vedere non ci salverà dal dolore.
Mentre il soccorritore ti tirava su dal mare in tempesta, eri ancora vivo. Il respiro era flebile. Giusto il tempo di salutare la tua mamma. Mentre i soccorsi faticavano ad arrivare, sei andato via. “Rachele piange i suoi figli che non sono più”. Qualcosa deve pur cambiare, donaci la forza di andare oltre le lacrime.
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