16 novembre 2020

16 Novembre 2020

La cura che ci salva dalla disperazione

di Giovanna Abbagnara

L’Italia è stretta nella morsa sanitaria. In pochi mesi siamo ricaduti nell’incubo del lockdown e delle sue conseguenze sul piano umano, economico e spirituale. Si poteva evitare? Si poteva fare di più? Le riflessioni sono tante e il tempo ci darà modo di poterle fare con calma e con lucidità. Senza la carica emotiva e ansiogena dei giorni della tempesta. Ora non è tempo di fare analisi, né negazioniste né allarmiste. È il tempo della prudenza e della cura. È il tempo in cui ci viene chiesto di stare dentro la storia e di fare la nostra parte fino in fondo, senza lamentazioni e senza disperazione.

Per i cristiani è anche tempo di conversione. Quando i discepoli vedono Gesù camminare sulle acque durante la tempesta hanno paura, si spaventano, pensano sia un fantasma e quando Pietro, per verificare che sia davvero il Maestro, si mette a camminare verso Gesù, ad un certo punto affonda perché il suo sguardo dal Cristo si sposta al vento e alle onde agitate. Ed è proprio in quel momento che comincia ad affondare e a gridare: “Signore, salvami!”. Il Maestro stende il suo braccio santo e lo salva. È molto bella questa pagina del Vangelo perché ci ricorda che la salvezza in mezzo alle tempeste che minacciano la nostra vita significa essenzialmente afferrare la mano di Gesù e restare aggrappati a Lui.

Ho trovato molta consolazione in seguito alle definizioni di alcune regioni in “zone rosse”, nelle parole dei vescovi italiani rivolte alle comunità loro affidate. All’indomani del passaggio della Campania da zona gialla a zona rossa, il mio vescovo, Mons. Giuseppe Giudice della Diocesi di Nocera-Sarno, ha diffuso una nota molto paterna invitando ad “una maggiore responsabilità e prudenza, evitando tutte quelle situazioni che possono mettere a rischio la nostra vita e la vita degli altri” ma nello stesso tempo ha ricordato a tutti che questo, più degli altri “è tempo di testimoniare, con pazienza ed intelligenza, la nostra capacità di essere attenti alla vita di ognuno di noi e dei nostri fratelli”. Ed inoltre: “È il tempo di una preghiera fiduciosa, attenta al momento che stiamo vivendo, con la fede forte dei nostri antenati che ripetevano: A peste, fame et bello, libera nos Domine: Signore, liberaci dalla peste, dalla fame e dalla guerra”. Un appello forte a restare credenti esercitando “il buon senso e il discernimento intelligente”.

Dello stesso parere anche l’arcivescovo di Milano, Mons. Mario Delpini, tra l’altro positivo al Covid 19, che ha parlato di una vera e propria “emergenza spirituale, non solo sanitaria e sociale”. E ha lanciato un’iniziativa per il tempo di Avvento: “La preoccupazione e l’angoscia per il futuro causate dalla pandemia inaridiscono il nostro spirito. Ma possiamo reagire con la preghiera: il kaire delle 20.32”, un appuntamento quotidiano di preghiera con le famiglie, per tutti i giorni di preparazione al Natale. L’intenzione dell’arcivescovo “è di riunirsi con chi vorrà accoglierlo nella dimensione domestica della famiglia per portare il conforto e la consolazione che può venire dalla grazia del Signore”.

Queste parole, questi gesti concreti sono il segno di una Chiesa che c’è, una Chiesa attenta all’inquietudine dell’uomo e che pur nelle difficoltà invita i suoi fedeli a tendere il braccio per afferrare la mano tesa di Gesù. Una Chiesa che chiede di tenere fisso lo sguardo su Gesù, una Chiesa che parla per consegnare parole di speranza e ha cura come una madre di tutti i suoi figli. Perché la solitudine è il vero e pericoloso frutto velenoso del virus.

Mi ha molto colpito qualche tempo fa leggere un esperimento fatto dallo psicoanalista Renè Spitz, viennese emigrato durante la Seconda guerra mondiale negli Stati Uniti. Spitz condusse, per la prima volta uno studio su bambini abbandonati in orfanotrofio seguendo il metodo scientifico sperimentale. Nello scritto Hospitalism e nel filmato Grief a peril in infancy il ricercatore osservò 91 bambini abbandonati sin dalla nascita in orfanotrofio, nutriti regolarmente ma con scarsi contatti interpersonali. Le nutrici dedicavano qualche carezza ai primi della grande camerata in cui vivevano gli infanti ma per gli ultimi il tempo stringeva e non si andava oltre le minime interazioni necessarie al nutrimento e all’igiene.

Dopo 3 mesi di carenza di contatti i bimbi svilupparono una grave apatia, inespressività del volto, ritardo motorio e deterioramento della coordinazione oculare. Nelle loro culle si formò un piccolo avvallamento che li avvolgeva completamente. I piccoli entravano in uno stato che Spitz paragonò al letargo: se ne stavano immobili in quelle nicchie che per molti divennero le loro tombe. Entro la fine del secondo anno di vita, il 37% dei 91 bambini, pur essendo stati alimentati correttamente, morì. Chi riuscì a sopravvivere non fu in grado di parlare o di camminare, spesso i superstiti non erano in grado nemmeno di rimanere autonomamente seduti.

Dunque la cura, il contatto, il nutrimento spirituale in questo tempo sono essenziali per non cadere nell’immobilità e nell’apatia spirituale. Tutti dobbiamo fare la nostra parte di maternage. A partire dai pastori. È la cura che fa fiorire la speranza e ci salva dalla disperazione.


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