Covid

Il Covid è entrato in casa mia attraverso la porta principale: mio marito…

Chiavi di casa

di Ida Giangrande

Il mio sposo è risultato positivo al coronavirus. Ora viviamo separati in casa e mentre il tempo passa, rallentato dalla paura, io ho capito cos’è veramente il Covid: un attentato non solo al corpo ma a tutta la persona.

È arrivato anche per noi. Non ha bussato alla porta, non ha chiesto il permesso, il Covid è entrato in casa mia nella maniera più subdola possibile e attraverso la porta principale: mio marito. Non siamo stati sconsiderati. Abbiamo trascorso mesi a stare attenti a tutto eppure, un attimo di distrazione, di poca riflessione, ed eccoci anche noi nel calderone dei contagiati. Asintomatici o parzialmente sintomatici, poco importa: siamo positivi. Io ancora non lo so, ma se lo è lui lo sono necessariamente anch’io anche se non nel corpo. 

Sono state sufficienti poche ore per ritrovarci invischiati in un reticolato di rapporti burocratici e indicazioni contrastanti. È un gran caos fuori. Tutti chiedono aiuto. Tutti fanno domande, i medici di base sono intasati, le Asl stanno impazzendo, non puoi uscire di casa e guardi il tempo che passa dal balcone di casa chiedendoti quando potrai tornare alla normalità, se esiste ancora una normalità. Rinchiusa nella tua dimora, con un nemico invisibile da combattere, osservi con chiarezza tutti i limiti della società umana che ti circonda. Se il Sistema Sanitario Nazionale non si è rivelato in grado di affrontare la pandemia, quello regionale ancora meno. L’Italia si porta dietro problemi atavici che non sono mai stati risolti. Di chi è la colpa? Non si saprà mai. Non esistono protocolli di sicurezza. Stiamo affrontando il Covid come tra il 1918 e il 1920 abbiamo affrontato la Spagnola. Anche oggi, nel 2020, sono stati allestiti giacigli di fortuna nelle chiese, si chiede al cittadino di assumersi la responsabilità del contagio, di lavarsi bene le mani, di coprirsi naso e bocca, non c’è personale a sufficienza, non ci sono strutture a sufficienza e non si conoscono terapie. La storia non ci ha insegnato nulla o siamo noi che non abbiamo voluto imparare?

E in questa ressa generale c’è in ballo un fattore umano, che spesso è poco considerato nell’ambito sanitario. Per fortuna non è così per tutti. La pediatra delle mie bambine. Pediatra di base. Un angelo incarnato, una volta appresa la notizia mi ha detto: “Non vi preoccupate, siamo tutti qui!”. È bastata una parola. Una soltanto. Mi sono sentita protetta. Ho capito che in questa baraonda di competenze c’è ancora qualcuno che abbraccia la persona non solo il suo corpo ferito

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Intanto le giornate trascorrono impietose, da mattina a notte da notte a mattina, e ti accorgi che non c’è solo la paura di come evolverà la malattia su lui, sulle tue figlie e su di te. Il dolore più grande è il peso della sua assenza. Tuo marito è lì, nella tua stessa casa, ma non ci puoi parlare, non puoi abbracciarlo. Una porta ti separa e spesso, quando ti metti a letto, da sola, con quella parte del letto scoperta, vuota ripensi a tutti i momenti trascorsi. A quante volte abbiamo perso tempo litigando stupidamente, a quante volte abbiamo dato per scontata quella ruotine della vita di tutti i giorni. Lui che torna da lavoro, il divano dove guardare un film stretti l’uno all’altra insieme alle nostre figlie, un bacio, un abbraccio. Ora è tutto stravolto, anche la casa, c’è distanza ovunque. Eppure a ben guardare non è tutto da buttare. 

Le pagine della storia si possono scrivere in tanti modi. Talvolta lo stesso concetto può essere raccontato in modi diversi in base alla prospettiva da cui guardi le cose. Tutte le cose, anche il dolore. Grazie all’assistenza spirituale del mio custode nella fede, don Silvio Longobardi, ho capito che dal fango nascono, talvolta, i fiori più belli se sai coglierli e coltivarli. In questo tempo di distacco forzato e violento ho imparato a guardare mio marito con occhi diversi, come non lo vedevo da parecchio tempo. Attendo con premura che arrivi l’ora di pranzo per portargli da mangiare e attendo a distanza che lui esca dalla stanza solo per augurargli buon appetito. Gli cucino ciò che gli piace anche quando non ho forza né voglia, per rendere più dolce la sua quarantena nella quarantena. Mi riscopro talvolta desiderosa di guardarlo attraverso il vetro della camera dove è isolato come facevo quando eravamo fidanzati e attendevo con ansia di vedere la sua auto sbucare dal vialetto per correre da lui. Mi siedo su una sedia nel balcone di casa corrispondente alla sua stanza e gli parlo attraverso la ribalta di un’anta. 

Ora non posso correre da lui. Potrò farlo quando finalmente il virus se ne sarà andato da casa nostra, ma per il momento devo farmi bastare lo sguardo, il desiderio, la premura, l’attesa. E così, con gli occhi della fede, la distanza diventa vicinanza, lo spazio vuoto diventa pienezza, il cuore accelera i battiti e l’amore coniugale si rivela per quello che è: comunione di luce e di intenti. Non una semplice convivenza, ma un intreccio di anime. Grazie a questa esperienza terribile, che mi sarei risparmiata volentieri, ho compreso cosa vuol dire la parola: marito. Lui è la mia carne e io la sua. Non si può vivere lontano dalla propria carne, è una condizione inumana che ha tutta l’intenzione di sfigurare l’amore. 

Con gli occhi della fede posso dunque vivere questo tempo come una grazia. Posso trasfigurare il dolore e offrirlo. E in questo mare di fragilità nulla mi vieta di perdermi in alcuni momenti della giornata, quando si avvicina un’altra notte da vivere nella solitudine. Nulla mi vieta di aver paura e anzi, nella paura scopro il senso vero della mia creaturalità, il bisogno profondo del conforto del mio Creatore che nessuno e niente potrà togliermi.




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