21 ottobre 2020
21 Ottobre 2020
Riempire di senso il tempo della pandemia
di Giovanna Abbagnara
L’altro giorno sono passata con la bici vicino alla casa di una famiglia che vive nella mia frazione. Siamo in una zona di campagna. Le abitazioni spesso affacciano direttamente sulla strada. Mi sono fermata per salutare Annamaria, una bambina di 6 anni. Aveva le mani appiccicate al vetro, ha sgranato gli occhi e mi ha salutato senza entusiasmo. Non può uscire. Il papà ha la febbre e la famiglia è stata rintanata tutta in casa in quarantena in attesa del tampone. Improvvisamente, mentre continuavo il mio percorso mi ha preso una sensazione di tristezza infinita. Pochi minuti ma intensi, durante i quali ho cercato di fare sintesi di tutto l’assurdo che questa pandemia ci sta costringendo ad affrontare: comportamenti non naturali per contenere i contagi, i timori, le preoccupazioni, le immagini terribili che abbiamo consegnato alla storia, i numeri che invadono il quotidiano, e infine le chiacchiere spesso stancanti quanto i problemi reali legati alla pandemia. Questa situazione dura da molti mesi e ci sta richiedendo un grande sforzo in termini di energie psicoemotive e fisiche. Il virus è entrato nel nostro modo di pensare prima che nel nostro corpo e ha seminato abbondantemente tensione e insicurezza.
Abbiamo dovuto riorganizzare abitudini, gestire una sovrabbondanza di preoccupazioni, anche economiche, rivedere al ribasso gran parte dei nostri programmi, ridefinire gli spazi vitali e le modalità relazionali, attenzionare costantemente i gesti e le distanze, la prossimità e il contatto, controllare noi e controllare gli altri. Il problema principale è che non sappiamo ancora quanto tutto questo durerà e il rischio è quello di abbassare molto la guardia per la stanchezza o di rovescio pensare, agire, scegliere come se la pandemia fosse la nostra unica e cruciale preoccupazione.
Possiamo tentare di leggere questa situazione come un grande opportunità se ci lasciamo fin d’ora attraversare dal senso profondo che le difficoltà danno alla nostra vita.
Innanzitutto siamo chiamati a rafforzare il senso di comunità. Questa grande sfida la stiamo e la dobbiamo affrontare insieme. Misura la capacità di coesione di una società civile ed ecclesiale. A tal fine dobbiamo lavorare ognuno nel proprio piccolo a sviluppare questa capacità di collaborazione. Non facciamo la caccia alle streghe, in questo caso ai contagiati. Al contrario circondiamoli di tutto l’affetto e le cure di cui siamo capaci. Spesso essi si trovano ad affrontare, oltre alla preoccupazione per aver contratto il virus, la difficoltà di reperire un medico che rispondi al telefono, la difficoltà di fare la spesa e prendere in farmacia le medicine adatte. A volte hanno anche solo bisogno di essere ascoltati e di condividere la preoccupazione. Se ognuno si chiude in autodifesa, è chiaro che si favoriscono le spinte depressive che già si avvisano abbondantemente.
Cerchiamo poi di evitare di perdere tempo ad analizzare dati, informazioni e teorie scientifiche che le tv e le radio ci propinano a tamburo battente ogni secondo. Puntiamo a riorganizzare il nostro tempo sulle cose belle che possiamo fare: più tempo per pregare per esempio, più tempo per scrivere un diario, più tempo per coltivare le piantine di erbe officinali sul terrazzo e soprattutto più tempo per rafforzare quei legami che sono fondamentali per la nostra serenità. Tutto questo è garanzia di speranza, è capacità di guardare al futuro con occhi nuovi.
Un ultimo atteggiamento possiamo tentare di carpire dalla pandemia ed è l’attitudine, propriamente cristiana, alla rinuncia. Un termine che non compare mai nella nostra società basata sul narcisismo, sul piacere ad ogni costo e sul soddisfacimento dei propri piaceri sempre e comunque. La rinuncia richiama a qualcosa di bigotto, antico anche tra gli ambienti ecclesiali. In famiglia non si educa più i propri figli a rinunciare a qualcosa per un bene più grande e necessario.
E invece la rinuncia contiene aspetti interessanti ed evangelici molto trascurati. Come ad esempio la sua fecondità. Pensiamo di aver perso qualcosa e invece ci accorgiamo di aver ottenuto qualcosa di un valore maggiore. Quando è sincera e non vissuta con nevrosi autopunitiva, la rinuncia ci educa a gestire le emozioni negative, a far tesoro delle cose importanti e ci restituisce la dignità e la libertà di figli di Dio, non soggetti ai desideri e agli istinti ma che si lasciano guidare dall’amore e lavorano alle cose essenziali. Magari se avessimo compreso il valore della rinuncia, non avremmo in estate dato il via libera a feste, cerimonie, discoteche con centinaia di persone. Avremmo potuto vivere più sobriamente anche alcuni eventi senza per questo sminuire il loro significato.
La pandemia ci sta obbligando a passare al setaccio il nostro modo di vivere mostrando anche i suoi vuoti e le sue contraddizioni. Non sciupiamo la possibilità di riempirli di senso.
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Cari lettori di Punto Famiglia,
stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).
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