Vita

Ancora una volta, ci voleva la morte per spiegarmi la vita…

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di Michela Giordano

Ho temuto di avere un tumore. In ospedale ho saputo che non era così, ma ho conosciuto la sofferenza di altre persone e ho capito che mi serviva la prospettiva di avere pochi mesi, per rendermi conto di quanto prezioso sia ogni singolo istante.

Per 10 giorni, il mese scorso, ho temuto di avere un tumore al fegato. Fino all’esito rassicurante della risonanza magnetica, io e mio marito abbiamo vissuto proiettati nella prospettiva di avere poco, pochissimo tempo, per essere felici insieme, crescere nostra figlia, progettare il futuro. Dieci giorni preziosi, forse i più significativi della mia esistenza. Con l’orizzonte della morte così ad un tiro di schioppo, tutto il resto mi è apparso come un’inutile preoccupazione. 

Ho messo da parte l’astio per il vicino di casa insopportabile, l’irritazione per il traffico, il fastidio della chat delle mamme inutilmente intasata, le lamentele per la casa sempre in disordine e ho veicolata l’intera mia attenzione su come e cosa fare per lasciare un’impronta di me, una memoria viva, in mia figlia. Con il terrore dell’incognito al mio fianco, mi sono interrogata su cosa dovessi concentrarmi e la risposta che ho trovato non è stata originale. Milioni di persone, prima di me, poeti e analfabeti, filosofi e gente comune, hanno detto la stessa cosa: l’amore, conta solo l’amore. E così, con il pensiero fisso sull’amor che “muove il sole e le altre stelle”, ho affrontato 10 giorni di esami e controlli, lasciando che, profondamente claustrofobica, nel tunnel della risonanza magnetica, mi facesse compagnia la leggerezza dei pensieri felici legati a mia figlia e a mio marito, con mio padre, morto un anno fa, che mi teneva una mano sulla spalla. L’ho sentito fortemente accanto a me, proprio fisicamente; ne ho avvertito perfino il profumo, di sapone da barba alla menta e di saponetta. 

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Non sono stati inutili, questi dieci giorni da incubo. Quante cose ho imparato! Il primo giorno, al pronto soccorso oncologico del policlinico, ho visto davanti a miei occhi la caparbietà di giovanissimi, perfino di un bambino di 6 anni; l’impegno e la dedizione di medici e infermieri; la disperazione di una mamma. Nella sala d’attesa per la Tac ho ascoltato il racconto di un uomo, allontanato dalla propria famiglia perché omosessuale, che, a 800 km da casa, affronta nella più completa solitudine, un tumore al colon. In attesa della Tac, la nonna di due gemellini nati prematuri, che facevano fatica all’esame, parlava, via cellulare, con il genero, rimasto bloccato in sud America per il coronavirus, e poi cercava su internet “cose a poco prezzo per vestirli”, perché “due e pure malati, non ce li aspettavamo e non sappiamo dove sbattere la testa!”.

In questi 10 giorni ho capito di non avere un tumore, ma una vita piena, data per scontata ed invece così straordinaria. Una volta ho letto che “la seconda vita comincia quando capisci che ne hai una sola”. È davvero così. Mi serviva la prospettiva di avere pochi mesi, per rendermi conto di quanto prezioso sia ogni singolo istante, di quanto sia inutile affannarsi per sciocchezze, di quanto io sia fortunata. Ancora una volta, ci voleva la morte per spiegarmi la vita.




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